Riattaccarsi alla parte sospesa delle cose – Alessandra Corbetta

 
 
C’è qualcosa che somiglia allo strappo
nel chiudere persiane e serrare
l’incolumità del nostro
vivere, come se preservare
fosse la chiave per rimandare
un dolore.
                                  Siamo
il guinzaglio e il cane che lo morde
nella fretta del passaggio,
quando andare era
una corsa forsennata verso
l’invisibile dei giorni.
 
 
 
 
 
 
Che giorno è saperlo dal numero di auto 
in coda alla rotonda, dall’alternarsi verde-
arancione-rosso, dal parcheggio
mezzo pieno del bar
che ha il nome di una cifra.
E allora non sapere più né il giorno
né l’ora se la strada è vuota, 
le porte chiuse come per sempre,
le insegne spente
da un tempo già senza memoria.
Tornare a fare il bagno con le paperelle,
riattaccarsi alla parte sospesa delle cose
per non dirsi di avere conosciuto il tradimento
l’abbandono vero, quello di distanze silenziose.
 
 
 
 
 
 
La giacca – lei – più grande
di tre taglie, le gambe secche
come il bastone di un ombrello.
Un ragazzone – lui – che invece
chiede a un angolo di strada
qualche soldo salutando – augurandoci
ogni bene. Sotto il temporale
non conviene lasciare agli amici
il capo scoperto: molto presto
a tutti loro pioverà dentro.
 
 
(Alessandra Corbetta, inediti)
 
 

In questi testi Alessandra Corbetta tratteggia alcuni momenti di una quotidianità costretta a confrontarsi con l’isolamento, con l’improvvisa sospensione delle abitudini e delle relazioni, con un’attenzione volta sia al modo in cui tali percezioni sono vissute nella sfera individuale, sia a come si estendono ai componenti di una società e – soprattutto – a quelli più deboli ed emarginati.

Dal primo testo, con un dettato lucido ed essenziale, incentrato su immagini concrete e riconoscibili, l’autrice rimanda la chiusura di ogni attività commerciale alla chiusura delle relazioni umane e individuali, associandola a uno “strappo” giustificato dalla necessità di “preservare”: ciò però non cura dal dolore né lo allontana (“come se preservare / fosse la chiave per rimandare / un dolore”). Vi è poi una riflessione sullo stile di vita rapido e pieno di impegni, che porta a trascurare i dettagli che ci circondano in una chiusura forse meno evidente, ma più pericolosa (“andare era / una corsa forsennata verso / l’invisibile dei giorni”).

I due momenti, posizionati in contrasto tra loro, paradossalmente mostrano una maggiore propensione all’ascolto dell’altro proprio “nel chiudere persiane e serrare / l’incolumità del nostro / vivere” (già solo nel definirlo proprio il “nostro vivere”), piuttosto che “nella fretta del passaggio”, che non consente una vera attenzione a ciò che ci circonda.

Il secondo testo riflette con maggiore attenzione sul trascorrere del tempo nell’abitudine delle giornate: i piccoli dettagli che davano il senso del “Che giorno è”, dedotto inconsapevolmente dal traffico, dai semafori, dall’affollamento di un parcheggio, si muta in un tempo espanso e sospeso in cui non è più semplice sapere “né il giorno / né l’ora se la strada è vuota”, testimoniando una chiusura sociale che, trasfigurando dagli oggetti immobili al silenzio delle relazioni quotidiane, trasmette un “come per sempre” di “un tempo già senza memoria”, perché apparentemente privato del suo ordinario e quotidiano trascorrere.

Se da un lato questo si traduce nel rischio di allontanarsi l’uno dall’altro, è allo stesso tempo occasione di “riattaccarsi alla parte sospesa delle cose”, che magari si era abituati a trascurare, proprio per la loro normalità, per il loro manifestarsi quotidiano, e dunque occasione per recuperare quelle “distanze silenziose” che, giorno dopo giorno, presi da noi stessi, concretizzavano “il tradimento / l’abbandono vero”; anche qui è presente il contrasto tra i due tempi, quello rapido e disattento e quello sospeso, espanso, che diventa occasione di accoglienza e di riparazione al rapporto con l’altro da sé.

L’ultimo testo, presentando l’immagine di un ragazzo semplice, costretto a vivere per strada, che chiede un aiuto ai passanti, pone l’attenzione sui più deboli ed emarginati che, come sempre, ma ancor di più in situazioni di emergenza collettiva, si ritrovano a dover fronteggiare la precarietà e la sofferenza, pur “augurandoci ogni bene”: paragonandolo al “bastone di un ombrello”, che ha bisogno del sostegno altrui per coprirsi “sotto il temporale”, la Corbetta lancia un messaggio di solidarietà e un invito alla sensibilità civile e sociale, ricordando che “non conviene lasciare agli amici / il capo scoperto”.

C’è una particolare attenzione dell’autrice ad assumere una parola soppesata, equilibrata, ma allo stesso tempo semplice e diretta, che possa trasporre con efficacia la percezione della realtà quotidiana nel suo affrontare l’imprevisto, trasformandolo in occasione di arricchimento e miglioramento individuale e collettivo, pur partendo da una dimensione personale attenta ai dettagli circostanti e allo stesso tempo autocritica: una parola che, nonostante l’apparenza lieve, ha la capacità di aderire al mondo e alle riflessioni, involontarie o meno, di molti di noi.

Mario Famularo