POESIA A CONFRONTO – La Poesia e la Storia

Wislava Szymborska
 
 

POESIA A CONFRONTO – La Poesia e la Storia
PASTERNAK, SERENI, SZYMBROSKA, LUZI

 
 

La poesia è innanzitutto testimone del proprio tempo e quindi non può restare estranea ai grandi accadimenti della Storia, anzi la grande poesia sa farsene carico, rappresentarli, dare una luce tutta sua all’evento. Analizziamo quattro poesie che si riferiscono a precisi eventi storici, importanti della nostra Storia recente.

27 Giugno 1905: dopo essere stati obbligati a consumare carne avariata, i marinai della corazzata russa Potëmkin si ribellano ammutinandosi al comandante e provocando quegli eventi rivoluzionari che bene sono stati resi cinematograficamente dal celebre film di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn. Pasternak ci propone quest’evento storico in una poesia che combina immagini dal sapore surreale, come nella descrizione iniziale del mare, a interessanti inserti dialogici e narrativi, tutto all’insegna di un realismo impegnato in cui la poesia si fa testimone dei fatti, cerca di interpretarli nell’accezione di una nuova epica contemporanea, scevra di ogni retorica o vuoto patriottismo.

18 Aprile 1948: le prime elezioni politiche della nuova repubblica. Sereni rievoca quel giorno parlando dell’amico poeta Saba da subito caratterizzato con precisi tratti personali: “berretto pipa bastone”, suoi marchi di fabbrica; lui che “sempre di sé parlava”, con protagonismo narcisistico, combinato però allo spessore del poeta che di sé parlando sa in realtà soprattutto parlare della vita di tutti. Si rappresenta qui tutta la delusione di chi aveva creduto nella svolta politica, nell’affermazione del socialismo anche in Italia, la cocente delusione della sua sconfitta appresa dalla radio: l’Italia è “porca”, sleale verso certa Resistenza con tutti i suoi ideali, “una donna che ignara o no a morte ci ha ferito”

11 Settembre 2001: l’attentato alle Torri Gemelle. La Szymborska scrive della tragedia partendo da una fotografia di chi è saltato “dai piani in fiamme”, dallo scatto che ferma l’istante “che li ha fissati vivi”. Siamo nell’attimo in cui la tragedia emerge in tutta la sua evidenza, ma non è ancora avvenuta: l’attesa inquietante di un destino segnato. La poesia può solo “descrivere quel volo”, impotente; ritrarsi nella reticenza necessaria della pietà.

11 Settembre 2001: allo stesso avvenimento non resta indifferente nemmeno Luzi. Nella sua poesia le torri “sorelle di opulenza”, emblema del predominio economico e finanziario degli Stati Uniti, ma “in un attimo / ridotte a niente”, vengono invitate a risorgere come “gigli di preghiera”, ossia simbolo di fratellanza e monito di “pace”, loro che hanno saputo unire in una stessa morte ingiusta (“lo strazio dell’ecatombe”) uomini innocenti di tutte le razze. Una pace che, finalmente” sia “pace vera”.

Fabrizio Bregoli

 
 
 
 
BORIS PASTERNAK
(da L’anno novecentocinque – Traduzione di Angelo Maria Ripellino, Einaudi)
 
LA RIVOLTA DEI MARINAI
 
Tutto viene a noia.
Solo a te non è dato di diventare abituale.
I giorni passano
e gli anni passano
e mille, mille anni.
Col bianco fervore dei flutti
celandoti
nel bianco aroma delle acacie,
proprio tu, forse,
mare,
li riduci, li riduci a nulla.
 
Tu stai su un mucchio di reti.
Tu chiurli alla maniera delle gru,
scherzando come una sorgiva.
E come una ciocca dietro l’orecchio,
la tua corrente in poppa solletica appena.
Sei ospite dei bimbi.
Ma con quale inaudita tempesta
tu rispondi,
quando la lontananza ti richiama a casa!
 
La vastità primordiale
s’infuria dalla spuma ed arrochisce.
La sbrigativa risacca
si esaspera
dalla catasta di lavoro.
Tutto si scompagina e a suo modo
ulula e va in rovina
e, imbrattandosi di melma,
batte a suo modo sui pali.
 
L’identità delle tinte
che si sono frammischiate
respinge indietro
l’insipidezza delle vele,
e s’approssima un muro d’acquazzone.
E il cielo scende sempre più basso
e cade a sghimbescio
e va giù ruzzoloni
e sfiora coi gabbiani il fondo.
 
Per la foschía galvanica
delle nubi scompigliate,
goffamente,
strisciando, barcolloni
si fanno strada nel porto le navi.
Fulmini dalle gambe turchine
come ranocchie saltellano in una pozza.
Attrezzi spilungoni
sono scaraventati
da ogni lato.
 
Tutto si preparava a prender sonno.
E si arrampicavano i granchi,
e verso il centro
del sole appesantito
si piegavano le testine delle làppole.
E il mare faceva le fusa
ad una versta e mezza da Tendr,
il grigio tronco d’una corazzata
con schizzi arancioni
screziando.
 
Il sole tramontò.
E all’improvviso
di luce elettrica sfolgorò la «Potëmkin».
Dalla cambusa alla plancia
irruppe un’orda di mosche.
La carne puzzava di putrido…
E sul mare caddero le tenebre.
La luce borbottò sino all’aurora
e ai primi albori si spense.
 
Lastre
di mareggiata mattinale
scivolarono
come rasoi di mercurio
lungo il piedistallo della mole
e, guardandole dall’alto,
cominciò a respirare e a rianimarsi
la corazzata.
Cantata la preghiera, cominciarono
a lavare la tolda.
Portarono in mare i bersagli.
 
A pranzo non sedettero al pasto comune,
e mangiavano in silenzio
pane ed acqua,
quando d’un tratto echeggiò:
– Tutti al càssero!
Ciascuno al proprio posto!
I due turni di quarto! –
E un tale in casacca,
annerendo di bile,
urlò con stizza:
– Attenti! –
da una bitta d’ormeggio
minacciando settecento.
 
– Fermento?!
Chi vuoi mangiare, in cambusa.
Chi non vuole, al pennone.
March! –
Le vedette impetrarono in un grido di meraviglia.
E all’improvviso, insieme,
si lanciarono tutti nel subbuglio
dalla bitta
di corsa alla batteria:
– Fermatevi!
Basta! –
esclamò imbestialito l’apostolo della minestra.
 
Parte dei fuggenti restò indietro.
Egli tagliò loro la strada.
– Di nuovo intrighi?! –
Poi diede il comando:
– Nostromo,
la tela incatramata!
Sentinella, accerchiarli! –
Gli altri,
nascostisi in folla nella torre blindata,
aspettavano atterriti il supplizio
che stava per sopraggiungere.
 
I cuori battevano forte.
E uno di essi,
non sopportando il dolore,
proruppe in un urlo:
– Fratelli!
Ma che è tutto questo? – E, scrollando i capelli:
– Dategli, fratelli, alle canaglie!
Alle armi!
Evviva la libertà! –
Uno strèpito d’acciaio e di piedi
andò rotolando
verso le murate della nave.
 
E la sommossa prese lo slancio,
stormendo,
verso le cime dietro l’albero poppiero,
e si gonfiò,
e lassù
come una mazza
descrisse un arco.
– A che ci serve correre a gara?
Fermati!
Ti raggiungerò, canaglia! –
Trach-tach-tach…
La mano tesa alla mira
e una scarica in corsa.
 
Trach-tach-tach…
E le pallottole balzarono sui ponti,
dai ponti,
trach-tach-tach…
in acqua,
sui nuotatori.
– È ancora a bordo?! –
Scariche in acqua e in aria.
– Ahà! Tu imbestialisci
per le nostre lagnanze?! –
Scariche, scariche,
e per i piedi in mare
e fila a Port-Arthur.
 
Ma nel reparto macchine si affaccendavano,
senza sapere ancora per benino
come andava sul càssero,
quando, nuotando con l’ombra sulle caldaie,
sulla griglia delle macchine
come un gigante
passò
Matjusénko
e, piegatosi sopra l’inferno,
esclamò:
 
– Stëpa!
La vittoria è nostra! –
Il macchinista si levò.
Si abbracciarono.
– Proveremo senza balie.
Sta tranquillo!
Sono già in gabbia.
Ed agli altri una palla per uno e giù in acqua.
Ma io son venuto, Stëpa, per sapere
chi sia il nostro più giovane meccanico.
– Ce n’è uno.
– Va bene.
Mandamelo di sopra -.
 
Il giorno passò.
All’alba,
avviluppandosi in una cortina di fumo,
gridò nel megàfono un marinaio ai marinai:
– Levate l’àncora! –
La voce si spense in una nuvola.
La corazzata puntò verso Odessa,
nel tronco severo
di schizzi arancioni
brillando.
 
 
 
 
 
 
VITTORIO SERENI
(Da Gli strumenti umani – Einaudi, 1965)
 
SABA
 
Berretto pipa bastone, gli spenti
oggetti di un ricordo.
Ma io li vidi animati indosso a uno
ramingo in un’Italia di macerie e polvere.
Sempre di sé parlava ma come lui nessuno
ho conosciuto che di sé parlando
e ad altri vita chiedendo nel parlare
altrettanta e tanta più ne desse
a chi stava ad ascoltarlo.
E un giorno, un giorno o due dopo il 18 aprile
lo vidi errare da una piazza all’altra
dall’uno all’altro caffè di Milano
inseguito dalla radio.
“Porca – vociferando – porca”. Lo guardava
stupefatta la gente.
Lo diceva all’Italia. Di schianto, come a una donna
che ignara o no a morte ci ha ferito.
 
 
 
 
 
 
WISŁAWA ZSYMBORSKA
(Da La gioia di scrivere – Tutte le poesie 1945-2009 – Adelphi, 2009)
 
FOTOGRAFIA DELL’11 SETTEMBRE
 
Sono saltati giù dai piani in fiamme –
uno, due, ancora qualcuno
sopra, sotto.
 
La fotografia li ha fissati vivi,
e ora li conserva
sopra la terra verso la terra.
 
Ognuno è ancora un tutto
con il proprio viso
e il sangue ben nascosto.
 
C’è abbastanza tempo
perché si scompiglino i capelli
e dalle tasche cadano
gli spiccioli, le chiavi.
 
Restano ancora nella sfera dell’aria,
nell’ambito di luoghi
che si sono appena aperti.
 
Solo due cose posso fare per loro –
descrivere quel volo
senza aggiungere l’ultima frase.
 
(Traduzione di Pietro Marchesani)
 
 
 
 
 
 
MARIO LUZI
 
11 SETTEMBRE
Dimettete la vostra alterigia
sorelle di opulenza
gemelle di dominanza,
cessate di torreggiare
nel lutto e nel compianto
dopo il crollo e la voragine,
dopo lo scempio.
Vi ha una fede sanguinosa
in un attimo
ridotte a niente.
Sia umile e dolente,
non sia furibondo
lo strazio dell’ecatombe.
Si sono mescolati
in quella frenesia di morte
dell’estremo affronto i sangui,
l’arabo, l’ebreo,
il cristiano, l’indio.
E ora vi richiamerà
qualcuno ai vostri fasti.
Risorgete, risorgete,
non più torri, ma steli,
gigli di preghiera.
Avvenga per desiderio
di pace. Di pace vera.