Niente di tiepido – Iole Toini

Iole Toini è poeta riservata. Appartiene al raro gruppo di coloro che si tengono lontani da ogni manifestazione autoreferenziale e preferiscono pubblicare con lentezza. Niente di tiepido (Pietre Vive Editore, 2023) è la sua terza raccolta che vede la luce, grazie all’illuminato editore Pietre Vive, a distanza di quattordici anni da quella del suo notevole esordio con Spaccasangue, che la fece velocemente conoscere sul territorio nazionale. L’autrice vive, elabora e distilla pensiero, privilegiando la sua dimensione di dialogo costante con la natura. E conosciamo questa sua consuetudine dalle immagini di vertiginosa bellezza che lei scatta durante le sue marce alpine e offre a chi la segue su Facebook.

Già dai primi testi di questo libro – diviso in tre sezioni denominate semplicemente da tre numeri – si viene investiti da scene folgoranti e si avverte subito che nei luoghi di Iole davvero non vi è «niente di tiepido» e ci si prepara ad essere coinvolti in qualcosa ad altissimo gradiente termico: qualcosa di unico, potente e insieme di nuda semplicità, come sanno essere le entità naturali.

Immagini e lessemi concorrono a costruire atmosfere in cui si è subito immersi e colpiti dall’impeto di una natura che squassa la retina e sconvolge corpo e mente con misteriose vibrazioni, e tutto avviene come se si fosse presenti là, su quei prati, tra le rocce a strapiombo, respirando quell’aria rarefatta, ascoltando suoni e silenzi. Lo spazio diviene allora non più una dimensione, ma uno stato di scambio intimo, che ustiona e sazia di inaudite note armoniche, come avviene nel testo a pagina otto:

Dopo la prima curva, all’ingresso del sentiero, punture gialle di fiori mi svegliano.
Il becco della terra si schiude. Ciuffi di erba guizzano come pesci intorno ai sassi.
I sassi zigzagano fra cespugli di pino mugo e rododendri. I piedi sono cavalieri in groppa al verde.
In alto, gruppi di gracchi – indocili come tutto in questo luogo – si allungano in vasche d’aria.
Nessuno è solo qui; tutto gorgheggia in un persempreamore.
 
Senza l’ingombro di pensieri ogni cosa è rivelata.

Iole Toini mostra tutta la gioiosa sapienza del suo poiêin, rappresentando scenari luminosi come spazi di un Eden terrestre, catene simbiotiche tra zolle di terra e vita animale, moti d’aria e versi di uccelli. Il suo dio si svela dove le rocce, l’erba e i viventi si congiungono in tremore, dove il silenzio-canto della natura tiene lontano il quotidiano assillo dei pensieri. E chi legge comprende come il viaggio psicologico dell’autrice si sia lasciato alle spalle ogni residuo carico di rabbia del vivere, che era presente in Spaccasangue, e che qui appare del tutto superato. Il mondo si è fatto ora benevolo, un persempreamore ricco di doni – basta volerli cercare, disponendosi all’ascolto e allo sguardo puro – ed ecco che arrivano, e si è illuminati e pacificati.

Una indicazione forte, che la poetessa lancia ai lettori in questo tempo dell’inquietudine, per cercare spazi di silenzio e contemplazione, per fermarsi a confrontare il fuori con il dentro, perché nel confronto si possa incontrare il nostro Io più profondo. E forse è proprio il poeta ad avvertire oggi ferocemente, più di ogni altro, questa necessità. Si noti che fra la scrittura di Toini e quella di altri autori sono rilevabili dei forti parallelismi e l’eguale tensione nell’ascolto-sguardo volto al mondo delle entità naturali, sebbene con linguaggi declinati in differenti stili. Infatti, a puntellare la suddetta tesi ci sarebbero poeti di varie nazionalità, i quali, con le loro testimonianze poetiche, indicano l’urgente necessità di un’inversione di rotta rispetto alla dimensione alienante della nostra società dominata dalla ipertecnologia, dalla velocità, dall’economicismo.

Si pensi alla poetessa statunitense Jorie Graham (Fast, Garzanti 2019), al francese Christian Bobin (Abitare poeticamente il mondo, AnimaMundi, 2023) e all’italiana Nina Maroccolo (La rivoluzione degli eucalipti, Disvelare Edizioni, 2021). L’umano ritrova se stesso solo nell’adesione alla natura di cui fa parte e nella poesia di pagina 10 Iole Toini arriva perfino a farci ascoltare la sensazione di essere stati anche noi, in un tempo lontanissimo, essenze vegetali:

Se un giorno sono stata un albero ha senso questo tremare
che sale dalle braccia ogni volta che dalla finestra entra il sole
e mi fa viva di un qualsiasi luogo
fino a poco prima spodestato dalla luce.

Questa potenza visionaria solleva chi legge in una dimensione di certo non onirica, ma densa di verità vissuta, quella di riconoscersi creatura pari a un filo d’erba, e in quanto tale, colma di gratitudine a tutto ciò che, sia luce, o pioggia o vento, o perfino il ruminare di una bestia, fa sentire l’autrice partecipe del prodigioso ciclo vitale che intorno a lei si perpetua. E tutto questo non è un banale rito consolatorio, ma voce di Poesia, la sola che riesce a smuovere, dinamizzare, ridare chiarezza allo sguardo opacizzato da secoli di indifferenza. Toini sta cantando il trionfo della potenza panica, differente da qualsiasi essenza superiore, divina e distante mai invocata, perché sostanziata di pura armonia, che vuole soltanto essere appunto armonia, grazia, adesione, arca viva che tutto unisce, null’altro.

E dunque questa voce poetica, riconoscibile tra mille, è quella che finalmente riesce a scrivere «una lettera per i prati per ringraziarli di essere prati», poesia-inno (p.13), musica per cantare la dissoluzione-rinascita dei corpi nel respiro del mondo.

Ma ecco che nella sezione 2 le scene di natura improvvisamente mutano in scene della inquietudine umana, come se la poetessa volesse mostrare come, vivendo umana tra gli umani, profondamente conosce i propri simili, e vuole dire pure la nostra miseria, quella dell’ingiustizia, dell’indifferenza, della violenza sui corpi, dei paesaggi umani che lentamente scompaiono. Dunque, testi di questa sezione inscenano in toni amari le vicende umane, comprese quelle dell’amore, che qui sul nascere appare addensato di oscurità, capace di sconvolgere, giungendo perfino – con una memorabile immagine – a far «ringhiare le rose» (p.33).

Nella sezione 3 questa dimensione centrale e umanissima dell’amore, attraverso un quadro iconografico unico in poesia, diviene un’apoteosi di eros. L’incontro amoroso è trasmesso infatti con una mirabile originalissima fusione tra immagini dalla natura e gesti degli amanti, come per confermare la suprema naturalità della comunione dei corpi.

In sostanza, quella di Iole Toini è una scrittura contemporanea, capace di attraversare il tempo, che testimonia la propria universale sostanza poetica nella notevole forza del messaggio, in un inconfondibile stile, come dimostra infine il testo di pagina quarantadue:

Si accosta al corpo fiorito
– è l’erba accesa sul sentiero –
entra – mentre tutto è sospeso –
tocca una a una le consonanze:
pietra con pietra
cielo con cielo
spazi vuoti con spazi vuoti
le unghie dell’aquila precisamente insieme
alle unghie dell’altra aquila.
 
Conta finemente il poco che viene
il tanto che va via

Annamaria Ferramosca

 
 
 
 

Del più bianco – fittissimo bianco – altare immobile e veleggiante – veggente del qui – ogni cosa traboccata – dal bianco sopraffatta – fatta chiarissima – alata ululata – aria magmatica e –
acqua e acquacielo – e –
luce che da sotto sale –
ben decisa a fare
della farfugliante radura – mormorii – cremosi bisbigli – dicono, dicono – della gonfissima luce – svettante lembo di lingua – lingua le frasche – lingua le tracce che indicano – dal basso stralucente – levata a pino cembro, a frassino – a foglia traslucente –
ben decisa a fare
in becchettii di puff – in grillichesaltano – in gemme e cricri e nuovo tutto – e tutto che può, che coprendo scopre – che silenziando canta
le cose come stanno.
Il tamtam passa dalla robinia al tordo al più piccolo – e trema
qui, a fare
la nevenascita
che spacca
e risana
ben decisa a fare – fino al granodibocca che fa la-lla-llal-la

 
 
 
 

Nel becco del nibbio, le valli, i boschi, un salire di fiori, un trapassare di fuochi, aperte le correnti, e vedovelle e nigritelle in macro tuttoverde. La voglia mi rade al suolo fino al dolore. Prendimi due tremila volte, a soffione sul dorso dei pini. Nella noce dell’aria che lecca sui tronchi muschio e formiche. E felci dentro felci, e trame di verdi, e altri verdi ancora, su, all’inizio dell’acqua. Tu – grandemente non umana – bocca di nebbia e nuvole, soffiami dalla cannuccia nel tempo tuo vastissimo. Tu, più che umana, altra.

 
 
 
 
Una lettera per i prati,
una lettera per ringraziarli di essere prati
che sanno – che verdissimamente incitano –
all’altissima forma del vuoto.
Con ogni filo d’erba la sostengono,
col grano e con la brina;
senza timore la confondono
fino al vento e la pioggia,
così che ogni cosa diventa
corpo che marcendo canta;
e gli alberi cantano, le foglie dicono sorrisi,
le api semplicemente ronzano, gli uccelli volano
di un volo felice di essere volo,
azzurro e vivace e libero.
Così, anche io cado di mio vento,
in quel modo che sangue e ossa
fondono verde con bocca e l’odore
squillante dell’erba e l’altissimo prato e me.