Il libro di Paola Ballerini La vita che si versa (edito da AnimaMundi nel 2025, con la postfazione di Daniele Piccini) esce a poco più di dieci anni dal precedente Dentro l’iride radici (Coazinzola Press, 2014). Un lungo periodo di decantazione ed elaborazione di un vissuto, inciso da perdite e malattie, che si intreccia alla scrittura, sempre più orientata allo scavo e alla sottrazione.
Il titolo La vita che si versa evoca subito l’immagine di un flusso, come annota la stessa autrice nell’intensa e meditata intervista, a cura di Viviana Sebastio, inclusa nel libro a completare il dire in poesia. Si vuol dare l’idea di un movimento continuo, di qualcosa (un gesto, un evento) che attraversa lo spazio e trascorre nel tempo, e che pure si traduce nella parola poetica, appunto nel verso. Tuttavia, l’impressione che si tratti di un moto orizzontale è, a mio avviso, ingannevole.
Nei suoi Colloqui sulla poesia Milo De Angelis ricorre al binomio suggestivo, ripreso da Marina Cvetaeva, di poeti del fiume e poeti del lago per descrivere due diverse modalità di concepire (di vivere) la poesia: «I poeti del fiume hanno un corso, uno sviluppo, passano da un territorio all’altro, hanno un movimento che li porta a crescere e a maturare via via che incontrano nuovi luoghi e nuove genti. […] I poeti del lago sono invece i poeti dell’ossessione: due o tre temi insistenti, sempre gli stessi, che i poeti osservano camminando in cerchio lungo la sponda, mutando ad ogni libro il punto di vista, la postazione, la tonalità di luce attraverso cui viene guardata e detta. Il loro tempo è rituale, ciclico, senza progressioni né tappe, il loro sguardo non tende all’estensione ma alla linea verticale».
A me sembra che Paola Ballerini appartenga alla categoria dei poeti del lago, ossia di coloro che si inabissano per cercare e far emergere una luce, o anche solo un bagliore, con uno slancio appunto verticale. Anche la struttura del libro sembra confermarlo: le quattro sezioni che lo compongono sono incorniciate da un singolo testo in apertura e uno in chiusura, come a richiamare la forma in sé conchiusa e profonda di un lago, al cui interno s’inoltra la sonda della memoria e del linguaggio.
La prima sezione, dal titolo Requiem, è dedicata alle figure genitoriali e contiene testi divisi in due sottosezioni complementari, Nel nome del padre e La fortezza della madre. Si avverte un tono concitato nelle poesie per il padre, dove agisce una contesa insanabile tra il tempo doloroso e inquieto della malattia e il tempo immobile che si instaura dopo la morte: «il tempo / ci precipita addosso / deflagrato / ci scaglia a smisurata distanza», e poi « il tempo gira su se stesso / e non si sposta / finiti gli spari la casa resta / disseminata / di munizioni». Anche dinanzi alla malattia della madre la figlia osserva, lucida e sgomenta, l’azione corruttrice del tempo sul corpo e sulla mente, assiste alle loro continue metamorfosi, registra i segni più minuti dello scorrere verso la fine: «sento la radice che si secca / il frutto che si stacca / osservo come precipitano / intere stagioni da cui provengo». In entrambe le sezioni i termini tempo e precipizio (nelle varianti del verbo precipitare) sono i poli semantici di uno sperdimento di fronte alla sofferenza che non dà scampo, alla sparizione degli affetti, alla disgregazione di ogni vita. Tuttavia, ad attenuare il dolore della perdita resta il conforto di un lascito, diverso per ogni genitore, come un filo di continuità da seguire e custodire: «ho compreso quello che mi hai insegnato / per sottrazione – / l’attraversamento che lascia / i passi senza direzione» (versi per il padre); «tu mi hai insegnato / le virtù della distanza / quanto l’eremo sia questione / di sopravvivenza» (versi per la madre).
La casa familiare è il primo luogo in cui si avverte la dismisura del vuoto dopo la scomparsa dei propri cari. Dimore è la sezione in cui le case non fanno solo da sfondo ai ricordi, ma sono in sé stesse spazio memoriale: «la casa era colostro / cruna del mondo», «la casa era / colata lavica», «la casa arenata sulla soglia / adesso è solo un’idea parallela / al caos». Ogni cosa esistente è soggetta alle leggi del mutamento, il poeta ne coglie i segnali, ovunque siano impressi, così «le finestre si socchiudono / cambiando forma sotto i nostri occhi», e persino «come un rampicante sul muro / il sonno intacca l’intonaco». Quella casa che sin dall’infanzia era stata spazio protetto e rifugio sembra ora aver perso la capacità di accogliere. Le stanze sono come abitate da ombre leggere, «corpuscoli che vorticano / nell’aria dietro le imposte». È qui che soccorre l’alfabeto della poesia, con la sua capacità di rigenerare e trarre linfa dalla materia indistinta del passato: «a volte si tratta di mettere / l’infanzia al sicuro / nella lingua – lo spazio / dove cominciano / la forza e la destinazione
Un’altra parola cruciale del libro è inverno, prescelta dall’autrice nella stessa intervista citata prima e ribadita nel titolo della sezione Consegna d’inverno. Qui si raccolgono testi in cui il paesaggio invernale è allo stesso tempo sfondo e soggetto della poesia. Sono subito chiari i motivi della predilezione: «inverno è l’odore / che fa la brina sui vetri / stagione scoscesa come il margine / della carta quando taglia / le dita – questo durare del rigore / l’esitazione della luce / mentre già spuntano le gemme / sul ciliegio».
L’inverno è il tempo della vita che lavora sottotraccia, che ferve nel profondo senza esporsi agli occhi del mondo, il tempo che ama il silenzio e favorisce il raccoglimento e la meditazione. L’inverno soprattutto invita a vivere per sottrazione: «poco più di nulla è quanto basta». Non c’è da dubitare che si tratti al contempo di una scelta esistenziale e di una dichiarazione di poetica. Non a caso la poesia Viatico, che più di altre risuona di un’intonazione esortativa e sapienziale, si chiude con questo verso: «inchinarsi sulle cose come l’inverno».
Nell’ultima sezione, dal titolo Gli ostacoli, le porte, si approfondisce la riflessione sulla funzione salvifica e memoriale della poesia, in una serie di testi che potrebbero dirsi di metapoetica: «la poesia è una forza / che ci sopravanza / […] la lingua / ci visita come una marea / che arretra lasciando / sporadici fossili», oppure «la lingua brulicando / fiorisce ostinatamente». Ecco ribaditi alcuni concetti finora disseminati come indizi per tutto il libro. Per Ballerini l’atto della scrittura è il riconoscimento di una forza che spinge dal profondo e preme per emergere, e nel moto stesso della risalita ripara e rigenera incessantemente. Occorre avere cura e attenzione per le parole che salviamo dall’indistinto, che «sono sole – / poche – intraducibili». Perché «scrivere è un gesto astruso», che si oppone alla «natura muta / delle cose». Dunque torna l’idea programmatica della sottrazione: la poesia, come la vita, ha bisogno più di silenzio che di parole, pertanto resteranno solo quelle essenziali, asciutte, necessarie. È un lavoro lento su sé stessi e sul linguaggio, un esercizio di pazienza che dal segno contrario degli ostacoli consente di «entrare nella porta luminosa / delle possibilità».
Daniela Pericone
d’inverno si sposta la traiettoria
si serrano i confini
crescono le cose
per sottrazione
la pioggia dopo imposta
nuova luce sulla finestra
gocce rapprese
dosi d’acqua dentro lo spazio
della vita che si versa
affonda la casa
dove le sillabe perdono peso
Via Zanella 4, Firenze
a volte si tratta di mettere
l’infanzia al sicuro
nella lingua – lo spazio
dove cominciano
la forza e la destinazione
l’immaginazione esce dalla bocca
come una nuvola d’inverno
se si potesse custodire
questo vento
con passi cauti fra le ombre
fino alla casa
come se il tempo fosse reversibile
e non dono sottratto
dalla mano – una cosa
che subito evapora
se accostiamo le cose sillabando
crescono gli occhi
come la prima di tutte le volte
viatico
non togliere la vigilia dai gesti
dormire sprovvisti di spade
tentare con cura un ancoraggio
fermarsi su una terra senza crepacci
replicare la pianta con movimenti sepolti
apprendere la parsimonia dal regno vegetale
proseguire oltre la strada deragliata
inchinarsi sulle cose come l’inverno
la poesia è una forza
che ci sopravanza
sostenuta da un invisibile
sistema di radici
quando la lingua
ci visita come una marea
che arretra lasciando
sporadici fossili
sovvertimento
la sorte di ognuno non è
la spinta della voce
ma prendere dimora nell’assenza
coltivare ciò che tace
di colpo allagare di chiaro il buio
nutrire l’inizio nel cielo
quando l’esodo ci spinge
un giorno dopo l’altro
verso la foce
la parola che manca
è nel cucchiaio del giorno
l’alba sale dalla finestra
fino agli occhi
e si versa dentro la casa
come un ospite che non fa domande
e stacca la buccia dalle ore
poi al crepuscolo
la pupilla si dilata – nel cielo
la luna è un filo di tungsteno