Continua il ciclo di Speciali dedicato ai Maestri letti e ricordati da poeti e amici di Laboratori Poesia. Un modo per conoscere la poesia contemporanea attraverso la voce di chi l’ha ispirata, e per conoscere e riconoscere la più importante e impattante letteratura nazionale e internazionale. Il primo articolo ricordiamo è stato curato da Paola Loreto su Emily Dickinson (QUI). Il secondo da Alessandro Agostinelli su Giovanni Giudici (QUI). Oggi ospitiamo un particolarissimo intervento di Giancarlo Pontiggia.
Alessandro Canzian
Non ho avuto maestri negli anni della mia giovinezza. Forse perché sono cresciuto in un’epoca insofferente a ogni forma di magistero e di tradizione, ossessionata dall’idea che i maestri andassero traditi, oscurati, aboliti. Che se ne potesse comunque fare a meno. E che fossimo finalmente approdati a un’era di libertà assoluta e incondizionata, in cui a ciascuno era dato di farsi artefice della propria Fortuna. Anche per questo ho sempre avuto la sensazione di vivere in un tempo che non mi apparteneva.
Le menti migliori della mia giovinezza erano tutte impegnate a sovvertire il presente, a lavorare per un futuro che non c’era, e che non si sarebbe mai realizzato, o a disegnare mondi egotici, che soddisfassero la loro vanità di dominio intellettuale. E il futuro – il futuro estremo, astratto, lambiccato, sperimentale, il futuro progettato in laboratorio – non è un tempo che abbia mai suscitato la mia attenzione. Sono sempre vissuto nell’oraziana idea del presente, o nel culto del meglio di ciò che abbiamo ereditato. E mi è sempre parso che dovremmo salvaguardare quel meglio, piuttosto che giocare un’impossibile partita con ciò che alcuni hanno voluto chiamare Storia, altri Destino.
I miei maestri, in questo vuoto, non sono stati uomini, ma opere. La distinzione può sembrare sofistica, in realtà – almeno ai miei occhi – era – ed è – sostanziale. Le opere non possono mentire, né fingere di essere ciò che non sono. Gli uomini, compresi quelli che avevano scritto alcune di quelle grandi opere, mi parevano figure tormentate, spesso confuse, inquiete, fragili, esposte alla seduzione delle ideologie, alle debolezze del corpo, alla brama di riconoscimento. Ciò che potevano insegnarmi stava in ciò che facevano, non in ciò che erano. E l’esperienza mi ha fortificato nell’idea che raramente gli uomini sono all’altezza di ciò che hanno prodotto.
Mi spingeva fin dal principio a queste considerazioni, il carattere mitologico della società contemporanea, che è essenzialmente una società dello spettacolo, e dunque votata non alle opere ma ai suoi autori: il divismo contemporaneo è consustanziale al rigetto degli studi e all’insofferenza verso ogni forma di rigore. Si osannano gli uomini, per evitare di doverli leggere.
Naturalmente amavo condividere le mie passioni e i miei pensieri, se non altro perché intuivo che in quello consisteva ciò che chiamiamo civiltà: ma coloro con i quali condividevo quelle passioni erano fratelli, spesso dispersi, spesso piagati dai tempi in cui vivevamo: fratelli, non maestri. Ogni magistero si fonda su una trasmissione di sapere, e sapevamo di essere immersi in un tempo che non voleva più sapere, che aveva anzi tradito i propri saperi, per consegnarsi al grande idolo di ciò che non è: il favoloso mondo nuovo; l’opera ignota, che trascende ogni tempo.
L’Occidente, da almeno due secoli, muore nell’insofferenza verso il proprio passato. E molte delle grandi opere della modernità che abbiamo letto, si sono portati dentro quel tarlo. Il Novecento, che pure è stato un secolo grande – grande ma tragico – si è sperperato in sensi di colpa, vaniloqui, ombre, conflagrazioni. E nel desiderio, non sempre inconscio, di una barbarie riparatrice. Molti dei suoi poeti hanno conosciuto le tenebre della mente, l’aridità del cuore. Molti hanno irriso a ogni pretesa di verità, di felicità. E hanno negato che si potesse distinguere fra bene e male, vero e falso. Dove i maestri non sono più sentiti come una forza necessaria, vuol dire che una cultura si è disgregata, e che ogni pensiero, così come ogni gesto estetico, non appartiene più a nessuno, nemmeno a chi l’ha generato.
Sappiamo da dove nasce questo sentimento, che è incontrastabile, perché figlio di una rivoluzione scientifica e tecnologica – e di una conseguente nuova idea di cosmo e di uomo – che non è oggettivamente confutabile: il mondo non è fatto per l’uomo, e ogni immaginario morale – dopo Copernico – è destinato a fare i conti con le insufficienze dei propri argomenti.
L’Utopia di Tommaso Moro, che è il punto più alto dell’Umanesimo politico rinascimentale, era già stata infirmata – tre anni prima di essere scritta – dal Principe di Machiavelli. E non c’è bisogno di aggiungere che l’antropologia machiavelliana era intellettualmente superiore a quella moreana. E che il suo fiorentino vivo era più intenso e pregno di sostanza morale del raffinato latino di Tommaso. Ma la virtù di Niccolò non era sufficiente a eliminare la malignità degli uomini, e non avrebbe potuto reggere il peso dei nuovi studi scientifici, né l’energia inconsumabile e sovrumana delle macchine che quegli studi avrebbero alimentato. L’ingenuità di Tommaso era forse più saggia dello sguardo lucido di Niccolò, ma non era sostenibile da chi non volesse rinunciare alle ragioni del vero. E l’intelligenza pragmatica di Niccolò aveva la capacità di schiantare le idealità umanistiche di Tommaso, non il sentimento del tedio e le forze spleenetiche che avrebbero presto annichilito l’Occidente. Le due vie, che parevano così onestamente limpide e produttrici di bene, ciascuna a modo loro, non potevano immaginare il futuro che stiamo vivendo.
Eppure, in questo deserto, non possiamo rinunciare ai doveri di chi ha ereditato forme di pensiero e di arte così grandi: è da quel magistero ideale, da quel grande sforzo di vincere la natura ferina dell’uomo, da quel commovente sogno di civiltà che nasce ogni giorno la nostra felicità di guardare un cielo, leggere, pensare condividere ciò in cui abbiamo creduto, amare: la nostra ostinazione nel credere che il meglio sia superiore al vero. Anche se sappiamo quanto pericolosamente equivoche e facilmente manipolabili possano risultare queste asserzioni, e come nessuno di noi possa presumere di disfarsi del vero, senza pagarne il prezzo in termini morali ed estetici. Le illusioni sono il fine, non il fondamento di ogni ricerca.
Più l’Occidente affonda nella sua grandezza, più ne sentiamo la necessità. Più le ragioni della modernità ci appaiono inconfutabili, più sentiamo la nostalgia di ciò che abbiamo perduto.
Giancarlo Pontiggia
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