La figura etimologica

Questa settimana rifletteremo sulla particolare assonanza, quasi paronomastica, ma con una sottile differenza, tra parole che condividono la stessa radice etimologica.

Vi introduco alla questione riportando la definizione di “figura etimologica” della Treccani:

La figura etimologica è una figura retorica grammaticale e insieme semantica che consiste nell’accostamento di due parole aventi la stessa radice (da cui il lat. figūra etymologĭca per indicare una medesima origine).

La figura etimologica rientra nella famiglia delle paronomasie, vale a dire di quelle espressioni che, poste nello stesso segmento discorsivo, si richiamano per affinità di forma, ma se ne differenziano per lievi mutamenti dell’espressione in grado così di creare inediti e inattesi circuiti di senso. Nel caso della figura etimologica, l’affinità di forma viene però determinata dalla presenza di una stessa radice per origine di etimo o per derivazione (come nelle espressioni vivere la vita, morire di una morte, amare di un amore, sognare un sogno, ecc.). La figura si presta così a meccanismi di intensificazione semantica del concetto di base (evocata dalla radice), garantendone una maggiore forza espressiva.

Dante fa costante ricorso alla paronomasia fino a renderla un elemento cardine delle sue tecniche retoriche e delle sue esigenze espressive. In particolare, la figura etimologica si presenta in moltissimi versi della Commedia sempre nel senso di un’intensificazione semantica (a partire dalla selva selvaggia di Inf. I, 5). Per es., quando incontra i grandi poeti antichi, la figura etimologica si modula anche ‘a distanza’, ricorrendo a più elementi e creando un tessuto di rinvii consono alla solennità dell’incontro: «O tu che onori scienza ed arte, / questi chi son ch’hanno cotanta onoranza / che dal modo de li altri li diparte?» (Inf.IV, 73-75), e prosegue con «onorata» (76) e «onorate» (80). In altri casi la figura si presta a fornire compattezza al verso, a intensificarlo emotivamente e a sintetizzarlo nell’epifonema, che è posto insolitamente all’inizio, come accade nel celeberrimo verso «Amor, ch’a nullo amato amar perdona» (Inf. V, 103).

A partire da Dante, la figura etimologica entra saldamente tra gli artifici retorici del linguaggio poetico, ma è il Seicento – sulla traccia del manierismo spagnolo – a farne impiego ricorrente. Nel Novecento, la figura etimologica sembra profilarsi come un espediente di cantabilità espressiva, sia in varianti pre-futuriste (Aldo Palazzeschi: «la vecchia s’addorme / e resta dormendo nel dolce romore», “La vecchia nel sonno”, in Poesie, vv. 7-8), sia in poeti come Marino Moretti («fior che fiorisce come frutto raro», “Cosa e parola”, in Il giardino dei frutti, v. 3) e, soprattutto, Guido Gozzano, che la inserisce nei suoi testi con moduli che sembrano ancora richiamarsi alla lezione dantesca:

 
Belli i belli occhi strani della bellezza ancora
d’un fiore che disfiora e non avrà domani
 
(“Le due strade”, in I colloqui, II, vv. 20-21)
 
 
Il farmacista nella farmacia
m’elogiava un farmaco sagace
 
(“La signorina Felicita, ovvero La felicità”, in I colloqui, VII, vv. 1-2)
 
 
simile a chi sognando
desidera sognare …
 
(“Una risorta”, in I colloqui, II, vv. 95-96)
 

In altri poeti la figura risponde alle più diverse esigenze stilistiche variando lo schematismo di richiamo morfologico e quindi la forza complessiva nelle diverse tessiture discorsive, come mostrano gli esempi seguenti:

 
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore …
 
(Umberto Saba, “La capra”, in Casa e campagna, vv. 3-6)
 
 
Di me stesso, di vivere la vita
di tutti
 
(Saba, “Il borgo”, in Cuor morituro, vv. 7-8)
 
 
Perché a me par, vivendo questa mia
povera vita, un’altra rasentarne
 
(Camillo Sbarbaro, “Talor mentre cammino solo al sole”, in Pianissimo, vv. 13-14)
 
 
catena, immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d’immobilità
 
(Eugenio Montale, “Arsenio”, in Ossi di seppia, vv. 21-22)
 
 
nelle sere tempestose:
è una tempesta anche la tua dolcezza
 
(Montale, “Dora Markus”, in Le occasioni, vv. 18-19)
 
 
Sognavamo nelle notte feroci
sogni densi e violenti
sognati con anima e corpo
 
(Primo Levi, “Alzarsi”, in Ad ora incerta, vv. 1-3)
 

Naturalmente questo genere di attenzione al suono e alla radice etimologica di lemmi, accostati nello stesso verso o in prossimità di versi, ha valenza duplice, ovvero sia eufonica che espressiva. Eufonica, per l’evidente ripetizione della radice comune dei lemmi (pensate al celebre “Amor ch’a nullo amato amar perdona”); espressiva, per il potenziamento del significato, ribadito nell’azione, nel soggetto, nel complemento, nell’apposizione, ecc.

 
Traccia:
 
TEMA = a piacere.
METRO = a piacere.
STROFE = a piacere.
REQUISITI = usare almeno quattro volte la figura etimologica, evidenziando la ripetizione della stessa radice etimologica in più lemmi che ne sono accomunati, nello stesso verso o in versi prossimi.
 
Esempio:
 
C’è chi, sognando un sogno troppo astratto,
affida ogni speranza disperata
a tale fede, avulsa d’ogni lume,
che pur sa illuminar disperazione.
 
Com’è che tali strani desideri
di chi, desiderando, già s’inganna,
non sembrano stranezze a chi vi crede?
Perché l’inerzia avvince quei fedeli?
 
Non è evidente il fatto che un progetto
è necessario, che servon pure i fatti?
E infatti, chi si serve dei suoi sogni
li realizza, se agisce senza oziare;
 
per gli altri la realtà, più duramente,
rivela che una fede oziosa mente.
 
 

Mario Famularo