Ho pensato i tuoi occhi – Michele Mari


 
 
Ti sei sempre riassunta per me
nei tuoi occhi
 
Così hai dominato i miei pensieri
sotto la forma dell’ellissi indiana
dove su bianco smalto l’iride
si vetrifica attorno alla pupilla
 
Così sognarti
è sempre stato guardare da lontano
due fuochi fatui
in un cimitero celtico
 
Così la tua immagine
è l’ultima che vede di notte il guidatore
prima del frontale
 
 
 
 
 
 
Ho pensato i tuoi occhi
così tante volte
che alla fine il pensiero
mi è rimbalzato addosso
e non ho più avuto un gesto
che non fosse riflesso
dal tuo sguardo
 
Questo dirò a discolpa
quando dovrò spiegare
perché della mia vita
ho fatto cosa aliena
e complicata
 
 
 
 
 
 
Fedeli al duro accordo
non ci cerchiamo più
 
Così i bambini giocano
a non ridere per primi
guardandosi negli occhi
e alcuni sono così bravi
che diventano tristi
per la vita intera
 
 

(Michele Mari, Cento poesie d’amore a Ladyhawke, Einaudi, 2007)

 
 
 
 

Amore come malattia, ossessione, turbamento da cui è difficile trovare requie e liberazione, che a volte può tormentare per un’intera esistenza, proprio come una fatalità morbosa, una patologia cronica, condizionando tutta una vita.

Nonostante l’amore possa essere anche questo, cominciamo da alcune banalità: non si sceglie l’amore – come non si scelgono gli accidenti a cui lo si è appena paragonato – e difficilmente si sceglie di farne a meno o di liberarsene. Allora, cosa è possibile fare?

È possibile razionalizzare questo sentire, tentare una convivenza lucida che, se non si concretizza sempre in una reale liberazione, è di certo un consistente tentativo di elaborazione della perdita – o delle possibilità. I testi di Mari raffigurano un sentimento che si rispecchia in quanto detto sinora, con un’amarezza feroce, ma al contempo con un desiderio appassionato di cedere a un sentimento raffigurato come impossibile, da una parte, e di separarsene, dall’altra, anche mediante la sua terribile nominazione.

Cominciamo dal primo testo, in cui l’autore stesso evidenzia la potenza devastante di questa affezione: l’incanto (letteralmente, inteso come legame, come vincolo) verso gli occhi della persona amata, che hanno finito per dominare i pensieri di una vita, diventando un sogno (e un segno) mortale, paragonato all’ultima immagine a cui dedicare l’attenzione prima di una morte violenta. La più cara, ma anche la più tremenda.

Si tratta di un sentimento di cui l’autore ha perfettamente contezza, sia in quanto a irrazionalità che in quanto a potenziale fatale; ciò nondimeno, può solo esporlo con lucida e amara ironia. Un’ironia che si avverte come dolorosa, visto che l’io narrante è anche vittima degli eventi narrati.

L’incanto – legato a doppio filo allo sguardo, che diventa, ancora, vincolo che limita, condiziona, indirizza, piega – continua a essere rappresentato nel testo successivo, fino al punto in cui non ho più avuto un gesto / che non fosse riflesso / dal tuo sguardo.

Chi prova un sentimento così assurdo già comprende che sarà necessario spiegare, che dovrà tentare una discolpa, per avere a tal punto condizionato ogni momento successivo della propria esistenza, rendendola cosa aliena / e complicata.

Raccontare così apertamente questa esperienza del sentimento e del desiderio configura anche una speranza di condivisione, di sentirsi compresi da chi ha vissuto un turbamento analogo: la speranza di non essere soli, quanto meno nell’aver subito l’amore.

Per provare a liberarsi, allora, si cerca una soluzione pratica: un duro accordo, non cercarsi più – e il paragone con i bambini mi sembra particolarmente indicato, per quanto terribile: l’innocenza e la crudeltà di quell’età è forse quella più assimilabile alla sfera amorosa, in quanto irrazionale, appassionata, capricciosa, testarda, indelebile.

E forse un sentimento del genere, per quanto infantile possa apparire, per quanto a volte possa avere esiti così dolorosi (anche se, lo si ricorda, è di fictio letteraria che si tratta, con tutte le estreme conseguenze del caso), potrebbe essere, in fondo, un’alternativa al disincanto, così distaccato e cordiale, che a volte sembra segnare il passaggio all’età adulta e la perdita di quest’innocenza, per sottrarsi alla maestà crudele delle cose più belle, ed autentiche.

 

Mario Famularo