Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse

In continuità con gli speciali pubblicati nell’estate 2024 (QUI), si propongono alcuni articoli aventi come oggetto autori rappresentativi della letteratura italiana. La redazione prevede l’individuazione di “una parola – chiave” indicante un sentimento, un’emozione, un oggetto, un’esperienza, a partire dalla quale presentare la lettura e l’interpretazione degli autori scelti secondo direttrici tematiche e/o biografiche. Possibile nel medesimo contributo il riferimento a più autori.

La precedente parola chiave, a cura di Giulio Mazzali, è stata Esilio (QUI). Quella di questo intervento è: SPECCHIO.

 
 

Il ruolo della letteratura nella tragica vicenda di Paolo e Francesca

Ma prima che più avanti si proceda, è da raccontare chi costei fosse, e per che morta, acciò che più agevolmente si comprenda quello che essa nelle sue seguenti parole dimostrerà”. Siamo nella seconda parte del Canto V dell’Inferno dantesco e Giovanni Boccaccio – sue le parole riportate – interrompe “l’esposizione litterale” dei versi per chiarire l’identità dell’ombra incontrata dal poeta fiorentino e raccontare la tragica vicenda di Paolo Malatesta e Francesca da Polenta.

L’agile narrazione offerta dal Boccaccio si rivela il breve resoconto di un infelice adulterio: a indurre Gianciotto al sanguinoso assassinio di moglie e cognato sarebbe stata la gelosia, la furiosa volontà di vendicare l’onore coniugale ormai compromesso. Un “delitto d’onore”, dunque, assimilabile per movente, dinamica ed esito a quelli spesso raccontati dalla cronaca odierna. Versione, questa del Boccaccio, che assegna a Gianciotto un ruolo cruciale nello svolgimento dei fatti, fornendo particolari inediti rispetto al testo dantesco.

Nei suoi versi, non nominandolo esplicitamente, Dante dedica alla figura di Gianciotto un solo endecasillabo e introduce attraverso le parole di Francesca un elemento del tutto assente nel racconto boccacciano (vv. 127 – 138):

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante
“.

Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse” (v. 137). È in questo verso, divenuto celebre, che compare nella vicenda un “terzo” attore. Le parole di Francesca non lasciano dubbi: è il Lancelot, romanzo francese narrante il segreto amore di Lancillotto del Lago (cavaliere della Tavola Rotonda) per la regina Ginevra, moglie di Re Artù. È proprio il libro, con il suo racconto d’armi e d’amore, a provocare in Paolo e Francesca effetti non dissimili da quelli generati in ogni amante dalla vista della persona amata, a svolgere il ruolo di mediazione che nel racconto viene ricoperto dal siniscalco Galehaut, testimone del patto tra cavaliere e regina.

A una lettura più attenta, tuttavia, il libro sembra avere una funzione ulteriore. A comprenderlo è Jorge Luis Borges, che dedica alla vicenda di Paolo e Francesca versi in cui la parola “libro” ricorre più volte:

Inferno, V, 129

Lasciano cadere il libro, ormai già sanno
che sono i personaggi del libro […] Hanno scoperto l’unico tesoro:
hanno incontrato l’altro.
Non tradiscono Malatesta
perché il tradimento richiede un terzo
ed esistono solo loro due al mondo.
Sono Paolo e Francesca
ma anche la regina e il suo amante […] Un libro, un sogno li avverte
che sono forme di un sogno già sognato
nelle terre di Bretagna.
Altro libro farà che gli uomini,
sogni essi pure, li sognino
.”

Lasciano cadere il libro, ormai già sanno / che sono i personaggi del libro” (vv. 1- 2) scrive Borges, dimostrando di aver compreso la funzione svolta dal libro nella vicenda amorosa. Vero e proprio “specchio”, esso consente ai due amanti di riconoscersi nei personaggi della narrazione, di essere, vivendo una trasformazione, Ginevra e Lancillotto, attori di un mondo – quello cortese – abituato a cercare nella letteratura diletto e parametri morali, a condividere una concezione amorosa che Dante, non senza sgomento, condanna con nettezza.

La trasformazione prodotta dal rispecchiamento, tuttavia, non risulta univoca ma duplice: Paolo e Francesca, infatti, divengono non solo i personaggi del libro, ma l’uno il riflesso dell’altro. “Lo specchio” rappresentato dal romanzo cortese – cavalleresco consente agli amanti di diventare, congruentemente a una concezione totalizzante dell’Amore (espressa da Francesca nella seconda parte del Canto), l’uno l’idolo dell’altro, in un’unione esclusiva che data l’assenza di un terzo non contempla l’opportunità del tradimento. Come scrive lo stesso Borges: “[…] il tradimento richiede un terzo / ed esistono solo loro due al mondo” (vv.13 – 14). Il rispecchiamento in se stessi, patologico e peccaminoso (il proprio amato viene concepito al pari di Dio), trova compiutezza emblematica nel procedere inseparabile dei due amanti nel vortice della bufera infernale, castigo inflitto ai peccatori della carne secondo la legge del contrappasso.

Se per Borghes l’unione oltremondana dei “cognati” è oscuro emblema di una felicità mai raggiunta dal poeta fiorentino, indotto a scrivere il suo poema sacro dal desiderio di ritrovare in sogno la propria amata, ovvero Beatrice, a una lettura più rispettosa del pensiero dantesco il procedere in coppia delle due anime appare parte essenziale della pena inflitta. La loro unione nel buio dell’Inferno non solo manifesta la ragione profonda del “mal perverso” (v. 93), ma condanna Paolo e Francesca al ricordo della superba radice del peccato compiuto, imponendo la costante e comune visione dell’immagine dell’altro.

Che il procedere in coppia rappresenti una componente sostanziale della pena, e non sia ipotesi gratuita, è testimoniato dalla lettura del Canto XXXII dell’Inferno, in cui Dante, proprio nella Caina, zona del nono Cerchio in cui Francesca destina profeticamente il proprio uccisore, incontra le anime castigate dei conti di Mangona, Alessandro e Napoleone, figli di Alberto. I due, conficcati nel ghiaccio, e con la testa in fuori rivolta verso il basso, appaiono al poeta […] sì stretti, / che ‘l pel del capo avieno insieme misto (vv. 41 – 42). Infiammati anche dopo la morte dalla stessa feroce avversione che in vita li ha condotti per ragioni politiche e di interesse a uccidersi reciprocamente, si mostrano alla vista del poeta come montoni cozzanti mossi da “ira” inestinguibile (vv. 50 – 51). Nell’episodio in questione, in cui evidente è l’eco della leggenda di Eteocle e Polinice (che Dante poteva leggere nell’opera di Stazio e Lucano), i conti di Mangona sono costretti a patire un’unione oltremondana capace di rammentare, attraverso la presenza dell’altro, i sentimenti che li hanno indotti al peccato. Lo stesso è per Paolo e Francesca, obbligati dalla Giustizia divina a una perenne visione reciproca.

L’esperienza del rispecchiamento, infine, richiama alla mente uno dei miti archetipici più significativi dell’antichità, quello di Narciso. Quest’ultimo, secondo il racconto ovidiano, compie la profezia pronunciata da Tiresia (avrebbe goduto di una lunga vecchiaia a condizione di non conoscere se stesso) e si specchia nell’acqua limpida innamorandosi del proprio riflesso. L’analogia con l’episodio di Paolo e Francesca risulta evidente e ancora una volta duplice. Ad accumunare le due vicende, infatti, non solo il fatale rispecchiamento provocato da un oggetto – in Narciso lo specchio d’acqua, nei “cognati” le pagine del libro – ma la sorte ultraterrena assegnata ai protagonisti. Come Narciso nell’Averno non smette “mai di contemplar se stesso nell’acqua dello Stige”, facendo della propria immagine idolo d’amore, così Francesca e Paolo, che uniti nell’Inferno non cessano di specchiarsi vicendevolmente, ricordando a se stessi la causa prima della loro colpa.

 
 
 
 
Riferimenti bibliografici

  • Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Firenze, Le Monnier, 1988;

  • Giovanni Boccaccio, Commento alla Divina Commedia, Torino, Amazon Italia, 2024.

  • Jorge Luis Borges, La cifra, traduzione di Domenico Porzio, “Lo Specchio”, Milano, Mondadori, 1982;

  • Jorge Luis Borges, Nove saggi danteschi, a cura di Tommaso Scarano, Milano, Adelphi Edizioni, 2021;

  • Publio Ovidio Nasone, Le Metamorfosi, cura e traduzione di Mario Scaffidi Abbate, Roma, Newton Compton, 2011.