Oltre al colle – Rocío Bolaños

Nella poesia di Rocío Bolaños, docente e traduttrice, tutto è sempre fortemente intriso di vivido sentimento, di un palpito vitale costante, di frementi visioni. Da salvadoregna e, dunque, figlia di una terra ribelle e in perenne sussulto sociale, la redattrice di Laboratori Poesia, ottimamente prefata dalla penna di Dario Talarico (altro prezioso componente della nostra redazione), in questa raccolta licenziata da ChiareVoci ci conduce nel suo universo di immaginazione e di realtà, di disamore, di acuta capacità e percezione di cogliere l’essenziale recependo qui e là le influenze di alcuni dei suoi autori più affini, a partire dall’amato Cesare Pavese.

Se andiamo a indagare all’interno dei versi noteremo che il termine che maggiormente ricorre è “silenzio”: un silenzio che è conseguenza di un’assenza, certo, ma altresì uno stato della coscienza che riporta in auge un ricordo tagliente, in un’apoteosi di emozioni mutevoli e cangianti. Resta il genere poetico e più in generale la scrittura a rappresentare l’icona di salvezza, l’àncora a cui aggrapparsi nei momenti difficili, l’ideale viatico per uscire, se non proprio obliare, ciò che ci devasta interiormente. E tramite essa ecco raccogliersi tutto un insieme di accadimenti, di percezioni, di bagliori d’erotismo e di amore, di languore e di nostalgìa “riuniti” nella complessa e screziata architettura dei versi.

Dietro ogni termine, nell’antro recondito del significato di ogni espressione, s’impone una lenta danza del cuore, una gibigianna di stati d’animo: ecco perché nulla è semplicemente come potrebbe apparire di primo acchito. Nella scrittura di Bolanos è d’uopo scendere nell’io più profondo per cogliere la verità, tra le metafore poste sul cammino, anche nella rigogliosa produzione legata al mondo della natura, si pensi al passaggio “ho provato a toccare il cielo / arrampicata come un’edera”, mentre “sul suolo solo frattaglie”. Non c’è pace per un’anima come quella della poetessa in questione, perennemente protesa verso l’azione, il sentimento, la creazione quotidiana, l’epifania di sé: tutto è dunque perennemente “in subbuglio”, frastornato dagli eventi e segnatamente da quella memoria che, apotropaica, è l’elemento che riporta in presenza le assenze, nel tonitruante ricordo.

Affrontare il cammino della vita da solitaria amante, abbandonarsi al fato, significa restituire comunque un valore anche al “noi” o a quel che ne resta (“i rimasugli”), a quell’unione di anime e di corpi, di spirito e di carne che appare vieppiù una ferita insanabile quando non vi è più un’alterità con cui confrontarsi e da cui lasciarsi permeare. Nell’affannoso e periclitante concepire l’amore pure l’immaginazione riveste un ruolo fondamentale: un sogno tardivo può così aprire nuovi capitoli nella considerazione di un addio, nel tremebondo pensiero di una memoria che si rende fallace, che non sa più richiamare quell’unione di corpi, di voci, di presenze.

La silloge è fitta di bagliori, di sguardi furtivi, di strappi emotivi che si condensano spesso in epigrammi, strofe spezzate, improvvise accelerazioni del cuore e decelerazioni della ragione in un’osmosi continua: e nel mettere in scena tutto ciò, come in plurimi fotogrammi Bolaños restituisce di sé l’immagine più vera, quella di un essere fragile e deciso al tempo stesso, protesa alla scoperta di nuovi mondi partendo dalla propria rinnovata interiorità e da tutte quelle “ferite che mi compongono” e che l’hanno in fondo fortificata.

Federico Migliorati

 
 
 
 
Non abbiamo finito di esplorare
l’immagine indefinita del fuoco.
Il tempo di gioia, piacere e festa
è ora spogliato, minacciato dall’oblio.
Hai anticipato la fine del calendario.
 
 
 
 
È solo un giorno di silenzio:
perenne sentore di mezzo lutto
lingua amara, pelle di vetro,
mani intorpidite dal vuoto.
È solo un altro giorno in subbuglio.
 
 
 
 
Allarghiamo il presente
coi nostri polpastrelli.
Varchiamo la soglia
entriamo sottopelle
come si entra
nei luoghi conosciuti
andiamo a tempo
lingua a lingua.
 
 

 
 
 
 

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