Un dialogo tra Roberto Cescon e Italo Testa, autore tra gli altri di Autorizzare la speranza (Interlinea, 2023), La divisione della gioia (Industria&Letteratura, 2024), Se non sarò più mia (Samuele Editore-Pordenonelegge, 2024) e il recente La crisi dell’individuo di Theodor W. Adorno (Orthotes Edizioni, 2025) di cui è curatore.
Roberto Cescon: “Autorizzare la speranza” è un’espressione da cui si ramificano diversi ragionamenti all’interno del tuo libro. Proviamo a toccarne qualcuno. Tu sostieni che la “verità” in poesia sia “a venire”, una verità che deve essere svelata, perché prima immaginata come possibile. Mi viene in mente un verso di Alessandro Anil: Per ogni terra reale ne esiste un’altra immaginaria. Addirittura il compito, mai concluso, della poesia sarebbe “autorizzare la speranza”. Cosa significa? È come se, di contro al presentismo, al diffuso senso di fine e allo sgretolarsi dei paradigmi condivisi, la poesia permettesse di immaginare un orizzonte assente e di agire in vista di quell’orizzonte. Tuttavia l’orizzonte a venire è legato, allo stesso tempo, all’intenzione di realizzare le cose nella loro pienezza, nella loro “compiuta individuazione”. È questa la “giustizia” poetica? È una “forma sociale esplicita” che unisce metafisica e individualità? E come si può tenere insieme l’individualità delle cose e degli organismi con la loro serialità nello spazio e nel tempo?
Italo Testa: “Autorizzare la speranza” è un gesto che precede la certezza, ma non si limita all’attesa. È un verbo che implica responsabilità, un atto performativo: la poesia non garantisce il mutamento, ma lo convoca, lo richiama, ne custodisce l’eco prima ancora che il suo suono si faccia udibile nel mondo.
Nel tempo del presente eterno, schiacciato sull’attimo, senza più futuri condivisi né passati autorevoli, la poesia si affaccia come pratica che — obliquamente — osa dire il vero. Ma non si tratta di una verità già data, fatta di fatti o evidenze, bensì di una verità a venire, una verità che — per essere tale — deve prima essere immaginata, sognata, forse anche fallita. In questo senso, come scrivo nel libro, la poesia confina con la speranza: «una verità non data», che vive del sogno e del dolore, in quello che Theodor W. Adorno chiamava «il suono in cui dolore e sogno si congiungono».
La poesia, così intesa, non offre risposte, ma direzioni. E ogni direzione è, a suo modo, una forma di giustizia. Non quella giustizia amministrata dalle leggi, né quella che si realizza nei tribunali della storia o della morale. Ma una giustizia senza nome, una giustizia poetica, che — come in Walt Whitman — si manifesta quando “le cose sanno rendere quel che dovrebbero”.
Questa giustizia non giudica dall’alto, ma accompagna le cose nella loro fioritura, nella loro piena individuazione. Una giustizia che si compie non nell’equilibrio delle bilance, ma nella luce — nell’atto di vedere qualcosa nella sua interezza, nella sua contingenza salvata. È l’idea che ogni cosa possa essere finalmente detta per ciò che è, che possa risplendere nella sua forma singolare, non serializzata, non riassunta da alcun concetto.
Tuttavia, la singolarità non esclude la serialità. La poesia abita questo paradosso: dire l’unico attraverso il plurale, l’arancia irripetibile attraverso le 365 arance allineate sul parapetto del fiume. È nel gesto stesso della ripetizione, nella scansione metrica, che il verso tenta — come una tecnica arcaica — di misurare la vita, di trovare la frequenza di un’esistenza irriducibile. La poesia, allora, non nega la serie, ma la trasfigura. Non la subisce: la attraversa per differenza.
Ecco perché la poesia resta, ancora, una delle forme in cui si autorizza la speranza: perché rende visibile ciò che non è ancora accaduto, ma che potrebbe accadere. Perché sfida la crisi d’intelligibilità con un atto di fiducia nella lingua, nella forma, nel mondo stesso. E perché ci ricorda che la verità non è un possesso, ma un cammino da fare, spesso a occhi chiusi, sulla soglia di ciò che non è ancora stato detto.
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In coperta un ritratto a cura di Dino Ignani