La luna dai greci a Montale

Dal punto di vista etimologico Luna deriva dal latino luc.na (da lucere), mentre in greco si chiama “Selene”, dalla rad. indoeuropea *swel “bruciare” (cfr. a.i. svaràgh “cielo”, lit. svilti, “bruciare”), dalla quale abbiamo una formazione derivata ”luna” (letteralmente la luminosa: qualcosa di simile è accaduto in neo-greco dove “luna” è rappresentato da derivazione di ”luce”). Scrive Esiodo, Teogonia, 115: “da principio ci fu Chaos”. Da Chaos nascono Gea e Urano, da Gea e Urano nascono Iperione e Theia, che a loro volta generano Elio (il Sole), Selene (la Luna), Eos (l’Aurora). Canta Esiodo, Teogonia, 371: Theia d’ Eelion te megan lampran te Selenen / Eo th’, he pantessin epichthoniosi phaeinei / athanatois te theoisi toi ouranon euryn echousi, / gheinat’ hupodmetheis’ Yperionos en philioteti “Teia Sole grande e la splendida Luna / e Aurora, che a tutti i mortali risplende / e agli immortali dei che possiedono l’ampio cielo, / generò, giacendo con Iperione in amore”. Il padre e la madre di Selene erano Titani e per questo Apollonio Rodio, Argonautiche la chiama: Mene dea titania.

Anche Omero, negli Inni omerici, nel XXXII, dedicato a Selene, la definisce mene, da *mens, lat. Mensis, da metior, dividere, misurare il tempo (ing. Moon, ted. Mond). Al verso 17 la invoca: chaire, avassa, thea leukolene, dia Selene (Salve, signora, dea dalle bianche braccia, divina Selene). Omero, nell’Inno a Ermes, IV, 99, la chiama (v. 99): he de veon skopen prosebesato dia Selene (e da poco era salita al suo posto di vedetta la divina Selene) e ci dà uno splendido verso, che sarà ripreso da Saffo (Inni omerici, IV, 141): kalon de phoos epelampe Selenes (splendeva dall’alto la bella luce della luna). Anche Saffo definirà la luna con l’aggettivo omerico kalan (bella): fr. 34V: asteres men amphi kalan selannan / aps apykryptoisi phaennon eidos, / oppota plethoisa malista lampei / gan (gli astri intorno alla bella luna celano il chiaro viso quando, colma di luce, più dilaga sopra la terra).

Nell’Inno a Elio Omero la chiama “figlia di Iperione” e la definisce (Inni omerici, XXXI, 6): euplokamon te Selenen (Selene dalle belle trecce) e nell’Inno a Selene (XXXII, 1) la definisce: Menen aidion tanysipteron (Selene, eterna, dalle ali distese) e poi, alla fine, la invoca con due sostantivi e quattro aggettivi (XXXII, 17): anassa, thea leukolene, dia Selene, prophron, eyplokamos (signora, dalle bianche braccia, divina Selene, benigna, dalle belle trecce).

 

INNO A SELENE

Selene eterna dalle ali distese celebrate, /o Musa dalla dolce voce, figli di Zeus Cronide, / esperte del canto; lei, dal suo capo immortale, un chiarore nel cielo / si diffonde sulla terra, e una grande bellezza si rivela /alla sua luce sfavillante: l’aria oscura s’illumina / alla sua corona d’oro, e i raggi risplendono, quando dall’Oceano, deterse le belle membra, / indossata la veste che rifulge lontano, la divina Selene, / aggiogati i puledri luminosi dal collo robusto, / rapidamente lancia in avanti i cavalli dalla bella criniera / e appare, dopo il tramonto, al culmine del mese; / il suo vasto ciclo si compie, / e allora i raggi della luna crescente discendono sfolgoranti dal cielo: ella è indice e segno per i mortali./ Con lei una volta il Cronide si congiunse in amore, nel suo letto: / ella concepì, e generò una figlia, Pandia, / che per bellezza emerge fra gli dei immortali. / Salve, signora, dea dalle bianche braccia, divina Selene, / benigna, dalle belle trecce; da te cominciando, io canterò / le glorie dei semidei, le cui imprese esaltano gli aedi / ministri delle Muse, con la loro amabile voce.

 

GLI AMORI DI SELENE

Omero, in questo inno, ci dice che Selene, unendosi a Zeus, generò Pandia che significa “la tutta splendente”, “la tutta chiara”, che indica la luminosità intensa delle notti di plenilunio. Selene è raffigurata nel mito come una donna giovane (Leopardi la definisce “giovinetta immortal”) che percorre il cielo su un carro d’argento trascinato da due cavalli (mentre Elio guidava una quadriga di cavalli, “vomitanti fuoco”, come dice Pindaro). Selene è celebre per i suoi amori: fu amata da Zeus e da Pan che, per sedurla, indossò il vello bianco di una pecora. Ne parla Virgilio, Georg, III, 391: Munere sic niveo lanae, si credere dignum est, Pan deus Arcadiae captam te, Luna, fefellit/ In nemora alta vocans; nec tu aspernata vocantem (O Luna, con un dono di lana così nivea, Pan, dio dell’Arcadia, ti ha ingannata e sedotta, chiamandoti negli alti boschi; né tu spregiasti il richiamo). Ma il grande amore di Selene fu Endimione. In un dialogo di Luciano, (Dialogo degli dei, 11) Selene confida a Afrodite: apollymai ge hypo tou erotos (per lui muoio d’amore). Racconta Apollonio Rodio che, quando Selene scompariva dietro al monte Latmo, nell’Asia Minore, andava a trovare il suo amato Endimione che dormiva là in una grotta. A Endimione, che in tutte le raffigurazioni appare come un bel giovane pastore o cacciatore, era stato concesso un sonno eterno, in origine dalla dea lunare stessa, per poter sempre trovarlo nella grotta e baciarlo. Il nome Endimione significa uno “che si trova dentro”, stretto dalla sua amante, come in un solo vestito comune. I suoi incontri furtivi con Endimione vengono ricordati da Catullo, carm. 66 v.5:

Ut Triviam furtim sub Latmia saxa relegans
dulcis amor gyro devocet aerio

(Come un soave amore richiami in segreto la luna dal suo aereo viaggio avvincendola alle rocce latmie…).

Secondo Pausania Endimione era un re d’Elide, paese dei giochi olimpici, ed Endimione generò con Selene cinquanta figlie, esattamente quanti erano i mesi di una Olimpiade. Il suo sonno eterno era un dono di Zeus che gli aveva permesso di disporre della prorpia morte ed egli stesso aveva scelto, quindi, lo stato di sonno invece della morte. Concludiamo con gli splendidi versi che Apollonio Rodio mette in bocca a Selene, la dea titania, che dall’alto del cielo vede Medea, la maga, che piena di tremore e terrore, corre per gettarsi nelle braccia di Giasone ( Apoll. Rod, Argonautiche, IV, vv. 57-65):

Non io soltanto ricerco l’antro di Latmo,
non io soltanto brucio per il bell’Endimione,
io che spesso mi sono mossa per i tuoi astuti incantesimi
nel pensiero d’amore, perché tu celebrassi i tuoi riti
tranquilla nella notte oscura, come a te piace.
Ora anche tu hai parte di questa stessa sventura:
il dio del dolore ti ha dato Giasone come tua pena
ed angoscia. Va’ dunque, e preparati a sopportare,
per quanto sapiente tu sia, dolori infiniti.

 

LA LUNA NERA DI LEOPARDI

“Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai, /silenziosa luna?” Uno dei versi più celebri dedicati da Giacomo Leopardi alla luna. Italo Calvino, nelle Lezioni americane, scrive che “il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare”. Ma la luna tersa e luminosa dei Canti nelle prose assume un altro aspetto: per esempio quando parla della caduta della sua caduta sulla terra. Il Recanatese ricorda lo stratagemma di Colombo che promise agli abitanti della Giamaica che avrebbe oscurata la luna. Costoro gli risero in faccia, ma quando la luna cominciò ad eclissarsi, spaventati e atterriti, concessero al navigatore tutto quello che voleva. Nel Dialogo della Terra e della Luna (1824) il poeta chiede alla Luna: “Sei tu abitata? Non arrivo a scoprire in te nessun abitante”. Nella “storia dell’Astronomia” parla dell’esperienza dell’astronomo francese La Caille, che recatosi alla Città del Capo osservò la luna “tremante” al passaggio del vento, un tremore che fa pensare al fatto che essa sia in procinto di cadere sulla terra. Nel Dialogo di un Folletto ed uno Gnomo parla delle “interazioni” tra la terra e il suo satellite “dalla luce opaca o cenerognola”. Ma il tracollo della luna sulla terra avviene nel frammento “Odi Melisso”: “ecco all’improvviso / distaccarsi la luna; e mi parea / che quanto nel cader s’approssimava, / tanto crescesse al guardo; infin che venne / a dar di colpo in mezzo al prato… La luna, come ho detto, in mezzo al prato / si spegneva annerando a poco a poco”. La “candida” luna del Canto notturno diventa “nera”. Come è possibile? Lo spiega Barbara Foresti: “Il crollo della luna riporta le due dimensioni di cielo e terra in contatto diretto e tangibile, è la presa di coscienza del genere umano: da simbolo di perfetta armonia primordiale ed incontaminata, la luna è come una creatura soggetta a corruzione, sulla terra, destinata a morire, a spegnersi, lasciando in cielo solo lo squarcio che inaugura l’era dell’eterna assenza”. La luna quindi da simbolo di armonia fra l’uomo e l’universo diventa simbolo di un ordine sconvolto. Così la terra è stata sconvolta e annichilita dal diluvio universale, ma dopo il diluvio ritorna il sole a illuminarla e, dopo il disordine, nasce l’ordine. Quindi la luna da elemento di distruzione simboleggia anche la rigenerazione. Dopo il diluvio nasce un’umanità nuova e una nuova storia. Quali sono gli aggettivi che il Recanatese attribuisce alla luna? Ne parla Paolo Di Paolo nel suo libro Rimembri ancora: silenziosa, vaga, vergine, intatta, solinga, eterna, pensosa, muta, immortale, candida. Poi cita la poesia straniata e straniante in cui si riassume e si condensa la poesia di tutta la storia e cultura umana di Andrea Zanzotto: “Luna puella pallidula / luna flora eremitica, / luna unica selenita, / distonia vita traviata, / atonia vita evitata, / mataia, matta morula, / vampirissima, paralisi, / glabro latte, polarizzato zucchero”.

 

IL DITO E LA LUNA DI SEVERINO

E’ uscito il libro “Il dito e la luna” di Emanuele Severino, maestro di pensiero che ha raggiunto cime vertiginose della riflessione filosofica con una proposta radicale, essenzialmente distante dalla filosofia così come è nata e si è sviluppata storicamente. L’autore spiega: «Come il dito che indica la luna non è la luna, così i miei scritti sono il dito, ma la luna è il re che c’è in ciascuno di noi.» Della tradizione filosofica Severino conserva gli aspetti formali e segue in maniera rigorosa l’opposizione parmenidea “dell’essere è e il non essere non è” che nega il divenire delle cose e estende l’eternità a ogni essente, senza paura delle conseguenze, in armonia con le parole di Platone per cui in filosofia “si deve osare tutto” (Teeteto 196d panta gar tolmeteon). Per Severino “tutto è eterno”. In che senso? Nel senso che “ogni momento della realtà è – ossia non esce e non ritorna nel nulla” e nel senso che “anche alle cose e alle vicende più umili e impalpabili compete il trionfo che si è soliti riservare a dio”. Eterno ogni nostro sentimento e pensiero, ogni forma e sfumatura del mondo, ogni gesto degli uomini; e tutto ciò che appare in ogni giorno e in ogni istante: il primo fuoco acceso dall’uomo, il pianto di Gesù appena nato, l’oscillare della lampada davanti agli occhi di Galileo. Gli uomini sono ossessionati dalla morte e non si accorgono che la morte non esiste e che sono già da sempre salvi “nella Gloria e nella Gioia”. Da più di duemila anni l’etica appartiene alla filosofia. La crisi della filosofia è la crisi dell’etica. Ci sono alcuni che tentano di salvare l’etica dal naufragio della filosofia. Fra questi Habermas che si comporta come la colomba che ritiene di poter volare meglio senza l’impaccio dell’aria, non considerando che senza l’aria non potrebbe volare. Così chi nega la morale è costretto ad accettare quei principi morali che vorrebbe eliminare. Se tu neghi la verità, sostieni la verità, cioè sostieni la verità di escludere la verità. Così chi nega la filosofia, sostiene la filosofia che vuole negare la filosofia, e così è filosofo anche se non vuole esserlo.

 

LA LUNA DI MONTALE

Giovan Paolo Lomazzo, nel suo Trattato dell’Arte della Pittura, scrive che le strade pubbliche sono riputati luochi della Luna. Luoghi franchi insomma, luoghi dove si è liberi di esprimere l’estro e il capriccio. Eugenio Montale osserva ne Le occasioni del 1939: “Le pellegrine in sosta che hanno durato / tutta la notte la loro litania / s’aggiustano gli zendadi sulla testa, / spengono i fuochi, risalgono sui carri”. Molto tempo dopo, sono passati trent’anni, è poeta famoso e critico del Corriere. Ma è anche un uomo diverso, disilluso, dubbioso, malinconico. E proprio in calce ad un elzeviro del 12 gennaio 1969, intitolato Variazioni, compare la lirica originalissima, intitolata Fine del ’68: “Ho contemplato dalla luna, o quasi, / il modesto pianeta che contiene / filosofia, teologia, politica, / pornografia, letteratura, scienze / palesi o arcane. Dentro c’è anche l’uomo, / ed io tra questi. E tutto è molto strano. / Tra poche ore sarà notte e l’anno / finirà tra esplosioni di spumanti / e di petardi. Forse di bombe o peggio, / ma non qui dove sto. Se uno muore / non importa a nessuno purché sia / sconosciuto e lontano”. Cosa vede il poeta non dalla terra ma dalla luna? La follia umana, le feste di Capodanno, le ubriacature per festeggiare il nuovo anno. E nella festa collettiva l’amara riflessione del poeta: “Se uno muore non importa a nessuno”. L’umanità si gode gli ultimi sgoccioli dell’anno e il poeta, come Leopardi, appartato pensa alla morte, o meglio pensa al miserabile destino umano che impone di festeggiare le tradizionali deliranti liturgie del tempo e della vita. Anche Leopardi, nel Canto notturno, si chiede che senso abbia la monotona ripetitività di una vita che vede il pastore invidiare lo stato d’animo della greggia che non conosce la sua “miseria”, ma è “queta e contenta”, mentre egli è assalito dalla noia e dal non senso della vita. Egli si rivolge alla luna immortale e le pone le fondamentali domande che si chiede ogni uomo che viene in questo mondo: qual è il significato del cosmo infinito (a che tante facelle?)? qual è il significato cielo infinito? (che fa l’aria infinita?)? qual è il significato del cosmo? (quel profondo infinito seren?), qual è il significato della solitudine (che vuol dir questa solitudine immensa?) cui l’uomo è con dannato a vivere in un oscuro granel di sabbia il qual di terra ha nome” (Ginestra)?, quale il significato dell’uomo stesso? (ed io che sono?). A queste domande assillanti la luna risponde con il suo silenzio (dimmi che fai silenziosa luna?) e con il suo saper assoggettarsi al suo eterno e laborioso corso immortale? Lei risponde implicitamente che anche l’uomo deve sottoporsi alla fatica di vivere, cui il poeta risponde: se la vita è sventura, / perché da noi si dura? Nell’ultimo componimento Il tramonto della luna, sulla scia della nuova poetica della Ginestra e nella prospettiva di una nuova concezione virile di “un destino che a comun danno impera” che vede il poeta farsi portatore di una nuova fede nell’umanità, si legge: Tal si dilegua, e tale / lascia l’età mortale / la giovinezza, in fuga / van l’ombre e le sembianze / di dilettosi inganni; e vengono meno / le lontane speranze…Ma le lontane speranze vedranno il 24 dicembre 1968 l’equipaggio dell’Apollo 8 metter piede sulla luna. Ad un certo punto il programma scientifico fu quasi dimenticato dall’equipaggio che si abbandona per un istante alla contemplazione della terra dalla luna. Queste le parole attonite degli astronauti: Anders: Mio Dio, guarda laggiù! C’è la Terra che sorge. Oh, quanto è bella! Borman: Ehi, non riprenderla, non è nel nostro programma. Anders: Hai della pellicola a colori, Jim? Dammi un rullino a colori, veloce, ti dispiace? Lovell: Oh, gente, è magnifica. Dov’è? Anders: Sbrigati, svelto! Lovell: Dov’è? Anders: Svelto. Lovell: Qui in basso?

 
 
 
 

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