Xe sta trovarse – Francesco Sassetto

Un nuovo modo di presentare libri e poeti. Abbiamo chiesto ad alcuni amici di ritornare sui loro libri non per raccontarli ma per stroncarli, per ammetterne e dichiararne le debolezze, i difetti. Nasce così la rubrica Riletture che ha come focus appunto la rivisitazione critica dei testi pubblicati.

Alessandro Canzian

 
 
Francesco Sassetto 1

L’esile libretto, sette poesie in tutto, in dialetto veneziano, è sicuramente di piacevole ed agile lettura, ma, alla fine, lascia il lettore deluso e con “la bocca amara”. Perché le aspettative che, già dal titolo, suscita, sono alte e altre e ho alle spalle altre tre raccolte, corpose e, soprattutto, dense di osservazioni, riflessioni e indicazioni. Che non si ritrovano in questa breve silloge cui nuoce anche l’esiguità numerica dei testi che non mi ha consentito di articolare una riflessione più robusta, concreta e convincente sul tema affrontato, l’incontro d’amore a cinquant’anni.

Quello che più delude è infatti proprio la povertà concettuale, la debolezza del pensiero intorno a tale argomento. La critica ha molto apprezzato l’andamento “quotidiano” e “narrativo” del dettato poetico, l’assenza di retorica – favorita dall’adozione di un sermo humilis quale il dialetto – che anima le mie poesie ed ha lodato una “profondità verticale” su cui insiste lo stesso prefatore, l’editore e poeta Alessandro Canzian. A me così non sembra, trovo, anzi, sia vero il contrario. Nel racconto della vicenda amorosa, rimango in superficie, non approfondisco, non scandaglio veramente la natura di questo trovarse, né il progetto di vita comune viene effettivamente esplicitato.

E maschero, con una certa abilità, tale vuotezza di contenuto con il ricorso ad immagini e linguaggio dialettali che risultano piacevoli nel loro scorrere fluido e melodico, ma poco comunicano sul piano del pensiero. Procedo spesso alla traduzione in veneziano di alcuni topoi diffusi e abusati nella poesia amorosa. Ad esempio, l’essere per la donna amata, una bricola, non è altro che il “punto di riferimento” che ricorre frequente anche nelle poesie di Francesco Sole. O l’iterazione di espressioni quale te strenzo co i brassi, il paragonarmi a l’omo co la pala che sbrega le croste de giasso, sono tutti loci pressoché canonici della lirica d’amore. Il sostegno ed il reciproco aiuto, la condivisione, la tenerezza verso il passerotto, la seeghéta, abbondano in ogni mediocre poesia d’amore.

Si respira, attraverso i testi, un’atmosfera di grigiore, di ripetizione di momenti e situazioni (le passeggiate, la pioggia, il tenersi per mano, l’abbraccio…) che certo alludono ad un’affettività diffusa e consolatoria ma, lo dico con voluta ferocia, rinviano più all’atmosfera di una Casa di Riposo che ad un incontro d’amore, evocando più l’affettuosa memoria di un coppia anziana che la relazione erotica tra due persone ancora giovani.

Non si ritrova qui alcuna descrizione psichico-sintomatologica dell’esperienza amorosa, che pure spazia dagli elegiaci latini a Petrarca fino a molti poeti novecenteschi, declinata in toni e cadenze assai varie ma connotata sempre con precisione e vigore. Né spiego adeguatamente a quale fine e in quale modo, mettere un matòn sora l’altro e semento/e védar che tien, che vien su. Impresa certo non facile, ma non è questo un compito della poesia? Non dispensare certezze né verità, ma additare percorsi e direzioni sì, trasmettere un’esperienza, qualunque essa sia, nella sua pienezza, nei suoi contrasti di luci e ombre. L’opera di costruzione di un rapporto è, invece, solo accennata, sfiorata, e subito abbandonata. Eppure un’edificazione che procede tra basi e barufe, richiedeva maggiori indicazioni sulle ragioni di attrazione e litigi, e sulle modalità del loro superamento al fine di giungere a quell’armonia empatica che consente la costruzione di un rapporto saldo e profondo. Non dovevo certo stilare un Trattato di psicologia comportamentale dell’affettività, ma tentare un affondo più deciso, più concreto, nella materia eletta ad argomento dell’intero libretto, questo sì.

Anche nella lirica in chiusura, Magio, insisto, nella prima strofa, sulla necessità di “imparare l’amore”, con il soccorso dell’amata che mi insegna queo che no so, mi spiega, come fa a scuola con i bambini delle elementari, come métar/le létere a posto par far le parole. Enunciato interessante, un nuovo alfabeto da apprendere. Se la similitudine è accattivante è anche tuttavia monca, interrotta, e interrotta laddove avrebbe dovuto essere il fulcro della vicenda, cioè il chiarimento su cosa e come bisogna imparare. Era questo il dato esperienziale decisivo che avrei dovuto comunicare in questo mini-canzoniere. E proprio la scelta di un bassissimo numero di testi ha giocato a sfavore dell’esito globale della silloge. Forse un più cospicuo mazzo di liriche mi avrebbe dato modo di strutturare un discorso poetico più ricco di osservazioni, spunti e indicazioni, dando all’operetta quel respiro concettuale che così appare contratto e soffocato. Proprio nella scelta di un ventaglio assai ridotto di liriche risiede la debolezza più grave, la causa principale della mancata riuscita del libro. Troppo breve o troppo lungo.

L’infelice “dimensione” della silloge danneggia, inoltre, un altro aspetto importante dell’opera. Se la contestualizzazione dell’incontro d’amore, una Venezia “minore”, periferica e poco nota alle invasioni dei turisti, è piuttosto efficacemente descritta, rimangono, invece, assai sfocate le note polemiche nei confronti della mercificazione e del degrado sociale e culturale della città lagunare. Mi limito a nominare appena il devastante fenomeno delle “Grandi Navi”, accenno soltanto ad una cità/desfàda da la furia de i schèi. Un’altra occasione mancata per irrobustire e sostanziare una vicenda d’amore che si nutre anche di un ambiente condiviso, comuni radici e un dolore comune nel vivere quotidianamente un luogo divenuto strumento di feroce business economico, e non più fonte di umanità e cultura. Un motivo importante di coesione, di vicinanza affettiva anch’esso, ma così diluito da passare quasi inosservato, anch’esso senza peso o, meglio, senza il peso che doveva assumere nella definizione dell’ambiente in cui è nato e maturato l’incontro sentimentale.

Francesco Sassetto

 
 
 
 
Xe sta trovarse
 
par caso o chissà, xe sta vèrzar un buso
fra grumi de spini e bronse ancora
infogàe, rifarse, ris-ciàr, lassàr
le cale da far ogni giorno vardando le pière
                 el vodo de le sere sensa man né parole,
la tristessa ingropàda ne l’ànema
come ’na sorte
                                   un destìn inciodà dentro in gola.
 
E contarse a tochi, a bocóni, sinquant’ani passài
ne l’ora che i bar se destùa, le ombre se slonga
e coverze i oci, le man se serca
par dir qualcossa che la vose no dise.
 
E po’ métar pian un matón sora l’altro e semento
e védar che tien, che vien su
                                  e ’ndàr insieme par i campi
svodài de un genaio ingelà, tra basi e barufe,
                e ’ndàr vanti, scampàr indrìo e po’ ’ncora vanti
                e ’na to magiéta nel comò a casa mia gera za el sogno
belo de ’na vita nova che ciapàva fià, ’na promessa
par tuti i giorni a vegnìr
tuto el tempo che resta.
 
                E ti ridevi alòra e ridevo anca mi come ride
i putèi a ’na festa.
 
E desso mi e ti a caminàr su la Riva a vardàr
le Grandi Navi che passa e i foresti
che ride e ghe fa le foto, ’sta nostra cità
desfàda da la furia de i schèi
 
e tornàr casa par le cale sconte, le man strete
ne le man a no pèrdar i passi nel scuro,
tegnìrse saldi qua che tuto bala imbriàgo
 
               ma a volte se verze slarghi impensài
che s-ciàra i oci de luse improvìsa
e te dise la strada
                                come solo la vita sa far.
 
 

È stato incontrarsi
“per caso o chissà, è stato aprire un varco/ in un groviglio di spine e braci ancora/ roventi, rifarsi, rischiare, lasciare/ le calli da fare ogni giorno guardando le pietre/ il vuoto delle sere senza mani e parole,/ la tristezza avvinghiata all’anima/ come una sorte/ un destino inchiodato nella gola.// E raccontarsi a pezzi, a brandelli, cinquant’anni passati/ nell’ora che i bar si spengono, le ombre si allungano/ e coprono gli occhi, le mani si cercano/ a dire qualcosa che la voce non dice.// E poi mettere piano un mattone sull’altro e cemento/ e vedere che tiene, che sale/ e andare insieme i campi/ svuotati di un gennaio gelato, tra baci e litigi,/ e andare avanti, scappare indietro e poi ancora avanti/ e una tua maglietta nel comò a casa mia era già il sogno/ bello di una vita nuova che prendeva fiato, una promessa/ per tutti i giorni a venire/ tutto il tempo che resta.// E ridevi allora e ridevo anch’io come ridono/ i bambini a una festa.// E adesso io e te a camminare lungo la Riva, a guardare/ le Grandi Navi che passano e i turisti/ che ridono e fanno le foto, questa nostra città/ disfatta dalla violenza del denaro// e tornare a casa per le calli nascoste, le mani strette/ nelle mani per non perdere i passi nel buio,/ tenerci saldi qui dove tutto ondeggia ubriaco// ma a volte s’aprono spazi impensati/ che schiarano gli occhi di luce improvvisa/ e ti dicono la strada// come solo la vita sa fare.”

 
 
 
 
 
 
No ti me scrivi parole
 
d’amor su i bigliéti che ti tàchi ai regali,
no ti scrivi ‘te amo’ gnanca su la pagina
voda de i libri che ti compri par mi.
 
Le xe parole massa grosse, za dite e
brusàe in foghi che pareva scaldàr
e dopo no gera che sènare e
làgrime da sugàrte da sola e vodo
da novo e ’na putèa de tre ani
che te vardava co i oci grandi
e no capiva.
 
Ti scrivi su i fògi solo el me nome
                e ’na data, el me nome come un tòco
de pièra incassàda a fondo ne la tèra
a segnàr che un posto ghe xe e xe
propio là, come el barcòn de i fruti
ligà sul canàl co corde grosse e caène.
 
’Na brìcola piantàda là.
 
Ma ogni tanto ti me vardi co i oci
contenti, pieni de sol, ti me strenzi
fra i brassi e ti me disi pianìn
in récia, ‘Francesco, mi te vògio ben’.
 
 

Non mi scrivi parole
“d’amore sui biglietti che attacchi ai regali,/ non scrivi ‘ti amo’ nemmeno sul frontespizio/ dei libri che compri per me.// Sono parole troppo grandi, già dette e/ bruciate in fuochi che sembravano scaldare/ e poi non restavano che cenere e/ lacrime da asciugarti da sola e il vuoto/ di nuovo ed una bambina di tre anni/ che ti guardava con gli occhi grandi/ e non capiva.// Tu scrivi sui fogli solo il mio nome/ e una data, il mio nome come un pezzo/ di pietra piantata profonda dentro la terra/ a segnare che un posto esiste ed è/ proprio là, come il barcone della frutta/ legato alla riva del canale con corde grosse e catene.// Una bricola piantata là.// Ma ogni tanto mi guardi con gli occhi/ contenti, pieni di sole, e mi stringi/ tra le braccia e mi dici piano/ all’orecchio ‘Francesco, io ti voglio bene’.”

 
 
 
 
 
 
Màgio
 
E tante robe de l’amor go da imparàr e
de ti che ti me compàgni e te piase
la me vose, i me oci, anca el me dente
sbecà, e queo che no so ti me lo disi ti
come ti fa co i putèi de scuola a métar
le létere a posto par far le parole.
 
E mi te tegno come le ciàve de casa in fondo
la scarsèla, come un lampiòn co fa scuro, ‘na
tovàgia a quadréti da vecia ostarìa, un vin
ciàro e s-cièto, ‘na cansón che te rùsa
in récia, come ’na roba che no scampa via,
na magiéta colór de quel glìsine che là
in fondo de la cale, ti lo vedi,
 
                                           xe pena fiorìo.
 
 

Maggio
“E tanto dell’amore devo imparare e/ di te che mi accompagni e ti piacciono/ la mia voce, i miei occhi, persino il mio dente/ spezzato, e ciò che ignoro me lo insegni tu/ come fai con i bambini a scuola a comporre/ bene le lettere per costruire le parole.// E io ti tengo come le chiavi di casa in fondo/ alla tasca, come un lampione quando fa buio, una/ tovaglia a quadretti da vecchia osteria, un vino/ limpido e schietto, una canzone che ronza/ all’orecchio, come qualcosa che non fugge via,/ una maglietta color del glicine che là/ in fondo alla calle, lo vedi,/ è appena fiorito.”