Voci, fiamme, salti nel buio – Giancarlo Pontiggia


Voci, fiamme, salti nel buio - Giancarlo Pontiggia

Voci, fiamme, salti nel buio, Giancarlo Pontiggia (Stampa 2009, I Quaderni, 2019).

 

Giancarlo Pontiggia è già da tempo riconosciuto come una delle voci più preziose della poesia italiana contemporanea. Attualmente impegnato nel Laboratorio poetico La poesia e la fontana organizzato da Marco Pelliccioli e Fabrizio Bernini (QUI), e a cui hanno aderito anche Mary Barbara Tolusso e Maurizio Cucchi, in questo Quaderno di Stampa 2009 Editore raccoglie un luminoso esempio di poesia riflessiva che trae un sentimento di vita ancora alle sue origini (da un’intervista su la Poesia e lo Spirito, QUI).

Di lui Maurizio Cucchi scrive:

Giancarlo Pontiggia, dopo l’eccellente esito di un libro come Il moto delle cose, ci regala ora un testo in doppia direzione, nel quale è bello lasciarsi andare, immergersi coinvolti, in piena adesione empatica con il soggetto, prima narrante e poi lirico. Il camion e la notte è un poemetto che si articola su un’idea senza tempo di possibile avventura, che parte da un semplice cortile, dalla povertà estrema dei mezzi di chi vi si rannicchia nella sua innocenza inerme. Ma di umana, quotidiana avventura semplice si tratta, il che non è un ossimoro, ma il concreto realizzarsi di un rapporto diretto e insieme onirico col reale. E in sogno il protagonista entra, stupito, compiendo un suo viaggio, attratto dalle varie presenze del mondo e dalla gioia inquieta d’esserci e d’esserne in qualche modo parte. Pur nel buio, nella notte che si insinua ovunque insieme alla meraviglia, viaggiando «nell’inerzia delle cose», Pontiggia riesce a cogliere e a esprimere, in questo percorso, il senso di una vita in un irriducibile «fiotto di sensi», tra opacità e improvviso accendersi di lumi.

 

La prima sezione, appunto Il camion e la notte, è in effetti un percorso organico che nasce da prima ancora / che avessi coscienza della mia felicità. Un percorso nel freddo, dove piove ed è notte in una fotografia portante, e dove finivo a poco a poco per raggomitolarmi, / dormire. Sognavo. Il sogno, questo alter ego della realtà che con essa si gioca l’esistenza, il desiderio, porta al mare, al volo, con un dubbio (per chi legge) quasi baudelairiano (l’albatro).

Ma la notte finisce, il risveglio è una necessità. Ecco quindi una partenza che segna il poema, la svolta per lunghi viadotti e gallerie che riportano alla consapevolezza della notte: e quanta notte è ovunque, quanto nero / tra le cose del mondo. Il sonno torna, ma anche quell’incanto che è peso della vita che si squaderna / in un fiotto di sensi, lumi che contrappone veglia a sonno, giono a notte, terra a volo, buio a luce. E in mezzo un fiotto di sensi.

 

Era un giorno
come tanti, un giorno
che sprofondava in spicchi
di dirupi, ubbidiamo
solo al cuore, anche se la vita se ne va
in mareggiate di pensieri,
sapevo
 
di non poter più tornare indietro, e niente
dinanzi a noi, se non creste di nubi, baratri, soffi

 

Questo giorno come tanti nell’immaginifico viaggio tra gli opposti che compone la vita, ha una conclusione di tono luziano che raccoglie tutto, che coniuga tutto:

 

Scivolare
 
a poco a poco nell’inerzia delle cose,
e com’è vasta
la notte, com’è vasto
il sogno, quando si è sognato, come tutto
è sogno
 
la tua notte, mondo, la tua mano
come il primo giorno, e pare
che niente si muova,
bruciava, nella stanza, una candela, brucia
 
su questa vecchia ferraglia,
la tua notte,
 
mondo

 
 

La seconda parte del libro, luziana come accennato per l’ultimo testo de Il camion e la notte, si intitola emblematicamente Animula e riporta in qualche modo alla mente la celebre Animula Vagula Blandula:

 

Animula vagula blandula
Hospes comesque corporis,
Quae nunc abibis in loca
Pallidula, rigida, nudula,
Nec, ut soles, dabis iocos…

 
 
Piccola anima smarrita e soave,
compagna e ospite del corpo,
ora t’appresti a scendere in luoghi
incolori, ardui e spogli,
ove non avrai più gli svaghi consueti…
 
(traduzione di Livia Storoni Mazzolani)

 

I luoghi dell’Imperatore Adriano, poi ripresi da Yourcenar nel celebre Memorie di Adriano (Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri) in Pontiggia diventa l’intero luogo del mondo:

 

Principio del mondo, ombra, oro
della vita che freme, annaspa – prova
a essere qualcosa, datti da fare, su, forza, prova
a essere, e basta

 

Maurizio Cucchi, in prefazione, afferma:

Ma riesce poi a sorprenderci con una seconda sezione, Animula, che sembra porsi come l’apparente contrario sul piano del registro e della forma, rispetto al poemetto d’apertura, trattandosi di una sottile meditazione lirica sull’esserci, tra immobilità e mutamento, che agisce e si compone la trama aperta del testo in un classico, luziano, “travaglio di pensieri”. E nella duplicità, pur molto coerente, della proposta, è un carattere essenziale e un evidente pregio di Voci, fiamme, salti nel buio.

 

E il mondo e la sua vivibilità, la sua vita e quante vite, è il focus centrale di un percorso anche temporalmente scandito:

 

ed è giugno, di nuovo, un giugno
di rose e di glicini, che si attorcono
in una profluvie di fronde e di pensieri
cielo
che si fa cielo, terra
che s’intana, strepita
 
 
[…]  
 
Udivo i suoni di luglio, colavano
i succhi delle cinque, era
uno stormire – tutto – di pomeriggi
quieti, lunghi, estuosi

 

Fino all’intenebrarsi nel fuoco:

 

S’intenebra, il tempo, nella sua mola
di ferro caldo, in propaggini
 
di fuoco

 

Il tempo e il mondo coincidono in un luogo che già Luzi aveva definito:

 

Mondo, non sono circoscritto in me,
hai voluto che fossimo ciascuno
un progetto di vita
nel progetto universale.
So bene che dobbiamo mutuamente
tu ed io crescere insieme –
era scritto nella pietra
del suo estremo miglio
e ben dentro di sé. Amen.
 
(Mario Luzi, Sottospecie umana, Garzanti, 1999)

 

Dove, seguendo la suggestione poetica di Pontiggia, non possiamo non leggere un parallelo sintomatico tra Mondo, non sono circoscritto in me e alcuni versi di questa seconda sezione di Voci, fiamme, salti nel buio:

 

in un travaglio di pensieri
ellittici, minuziosi, che sfiancano
l’animo, il tuo, che sprofonda
in strati minutissimi
di roba, in grumi
pastosi che si rimescolano,
 
s’infossano

 

L’Amen luziano in Pontiggia diventa l’infossatura di un’estinzione di ogni pensiero, della mente che si disfa, / si sparpaglia // in bave, lumi, pensieroni. Una riflessione abissale che nasce dal rabbrividivo dal freddo iniziale e si conclude con delle propaggini // di fuoco. Ma c’è vero calore?

Probabilmente ha poca importanza chiedersi una definizione finale, totale, certa. La tenerezza del percorso consapevole delle asperità basta già a vedere il luogo, il mondo e sé stessi. La notte torna, il buio resta, facciamo che la vita sia così, che stridano / le sue porte invulnerabili, si sgonfi / a poco a poco il tuo palloncino, mondo, / facciamolo / questo straccio di salto. Basta l’auspicio, il desiderio, per dire il senso della domanda e del vivere.

 
 

Ma oltre Luzi un poeta come Pontiggia non è privo di figli. Si pensi ad esempio a un libro edito nel medesimo anno di Voci, fiamme, salti nel buio, il 2019, Fortissimo di Matteo Bianchi (che cito perché sono certo del collegamento, in quanto si conoscono):

«Sono complicati, articolati e spesso sono dati per scontati, vengono trascurati i legami di cuore. Forse è per questo che ci si infiamma per tutt’altro, per timore di perderli. Dentro di sé ognuno lo sa dal primo giorno di sole che di preoccupazioni e passioni pratiche ne avremo sempre per le mani e non si muore, ma le persone alle quali ci si affida sono un tenero salto nel buio, ciò che scalda e ha la durata più incerta»

 

Non sfugge la similtudine, se non addirittura il parallelismo, della contrapposizione tra luce e buio. Ma anche del cuore, in Pontiggia:

 

Era un giorno
come tanti, un giorno
che sprofondava in spicchi
di dirupi, ubbidiamo
solo al cuore, anche se la vita se ne va
in mareggiate di pensieri,
sapevo
 
 
[…]  
 
nella retina della mente, non osi, tocchi, torni
al buio da dove vieni, cos’è – ti chiedi – questo
senso di molto che ti invade,
per urti, soprassalti, moti
del cuore che si spappola, a poco a poco, retrocedi
nella materia, scura, dei sogni, sei
dove è notte, fuoco, soffi
che si dissolvono, evaporano, si riaggregano

 

La frase di Bianchi un tenero salto nel buio dice e aiuta a svelare Pontiggia. Perché tra queste pagine non scorre dichiarata una tenerezza verso il mondo, quasi impossibile a fronte dell’urto, del buio, ma una volontà tenera di restare innamorati, ammaliati, del mondo stesso:

 

di ogni male, è gioia, di nuovo, nella lingua
di chi rivede la luce
radiosa
in cui ti avvolgi
 
ed è giugno, di nuovo, un giugno
di rose e di glicini, che si attorcono
in una profluvie di fronde e di pensieri
cielo
che si fa cielo, terra
che s’intana, strepita

 

Una grande lezione che Pontiggia trae dall’essere di fronte al mondo, dalla nudità del proprio essere nel mondo.

 

Udivo i suoni di luglio, colavano
i succhi delle cinque, era
uno stormire – tutto – di pomeriggi
quieti, lunghi, estuosi

 

Per imparare che il mondo, forse, è anche la tenerezza con cui lo si guarda.

 

Alessandro Canzian

 
 
 
 
 
 
Al tempo dei tempi, quando
il miele colava dalle cortecce degli alberi,
e i camion correvano liberi per le strade del mondo,
prima ancora
che avessi coscienza della mia felicità,
 
me ne stavo tutto solo, al riparo dal vento,
in un vecchio cortile lastricato di beole grige,
entrava
 
così poco il sole, in quel cortile, che a volte
rabbrividivo dal freddo
 
 
 
 
 
 
E quando
pioveva a dirotto, me ne stavo lì,
in quel cortile di beole e di fango,
coperto con un gran telo, a sentire
l’acqua che franava giù dal cielo,
la sentivo
picchiettare, urtare, a gran folate,
fiondava
 
la notte, improvvisa,
con il suo mantello di nuvole scure, io
avrei voluto guardare in su, tirar fuori
gli occhi dal gran telo che mi copriva,
sentivo
 
tutto quel buio che mi correva intorno,
e i rivoli dell’acqua che scorrevano nei tombini,
e lo sgrondare di un platano altissimo,
che sormontava il mio corpo. E a sentirlo,
mentre frusciava e si raggricciava,
come se volesse rintanarsi in se stesso,
nascondersi nei cunicoli delle sue radici,
mi pareva di esser fortunato, con quel gran telo
che mi proteggeva dalle intemperie,
nel quale finivo a poco a poco per raggomitolarmi,
dormire. Sognavo
 
 
 
 
 
 
Sognavo che un giorno
sarei salito sul ponte di una nave,
e mi sarei specchiato nell’acqua, gonfia,
del mare
 
com’era gonfio il mare, come spumava
contro le murate della nave, io
raccoglievo gli spruzzi del suo rigoglio,
piangevo di gioia
nel lasciarmi invadere da quelle gocce,
era sempre sole in quel sogno, aspiravo
le gocce che il vento mi sbatteva addosso,
s’intrudeva
nelle feritoie del mio corpo,
ero così leggero, aereo,
in quel sogno, mi pareva
di volare su, in alto, in alto
sopra la nave stessa, di precederla, anzi,
come un delfino dei cieli,
poi
 
 
 
 
 
 
Mi risvegliavo, era l’alba, lo sentivo dalle chiazze
rosa che si spalmavano sulle beole del cortile, il cielo
aveva smesso di spiovere, qualcuno
tirava via il mio telo grondante
di acqua, mi stropicciavo
dal peso della notte
come un uccello che si appresta a volare, e si gonfia
di tutte le sue piume, beve
l’aria che lo impregna.
 
E partimmo
 
 
 
 
 
 
Che spavento, la prima volta, traversare
quei lunghi viadotti,
e le gallerie
buie e umide, sballottati
fra le cose del mondo, era tutto
un urto di cose, aria
che si gonfiava, e soffi, e stridi, correvo
per le vie del mondo,
il giorno
 
era eguale alla notte, com’era grande
la gioia di esserci,
liberi
nella notte che sprofondava, lenta,
su strade sempre uguali, grondanti
di asfalto e di luce, a volte
 
mi prendeva come uno strano tedio, dove sto andando
mi dicevo, ognuno
compiva soltanto il suo dovere, neanche alzava la testa,
sprofondavo
nel sonno come la pioggia
nel catino, scuro, della terra,
era bello
 
perdersi in quei meandri favolosi
sogni slanci chimere
tutto ciò che affonda nella vita
e basta, come quando
ci si fionda in una discesa immane
e si speronano le lunghe scie dei guardrail
 
e quanta notte è ovunque, quanto nero
tra le cose del mondo
 
 
 
 
 
 
La ricordo ancora
la sua mano, era poco
che ero venuto alla luce
delle cose del mondo, ai suoi selciati
la vita scivolava così, senza una ragione,
era lì
che me ne stavo, la sua mano,
le biglie dei secondi che si srotolavano
davanti a me, trasecolavo
in quell’incanto, sentivo
il peso della vita che si squaderna
in un fiotto di sensi, lumi
 
 
 
 
 
 
Entro nei bordi di un tempo
che non si consuma, resiste
– felice, invulnerabile – nel suo
letargo di evo, mi rannicchio
in questo fruscio di porpora,
di pelliccia selvosa che s’intana
 
 
 
 
 
 
Facciamo che la vita sia così, che stridano
le sue porte invulnerabili, si sgonfi
a poco a poco il tuo palloncino, mondo,
facciamolo
questo straccio di salto, oppure
facciamo che il tempo sia quello di ora
ventoso e turrito, e che tu
compaia, di nuovo, tra un riquadro
e l’altro del cielo, e che io
sia lì, dov’ero, dove volevi
che fossi, e sia
all’altezza delle cose
che sia clemente, il domani,
con noi e con voi, fino
all’estinzione di ogni pensiero