Vissero i boschi un dì: tra scienza e poesia, una guida allo sguardo degli antichi rivolto alla natura e ai suoi misteri

“Vissero i boschi e l’erbe, vissero i boschi un dì”: è a questo celebre verso della Canzone alla Primavera di Giacomo Leopardi che Mario Lentano ha voluto ispirarsi per il titolo di uno dei suoi ultimi studi. Il volume Vissero i boschi un dì, che prende le mosse dal mondo poetico degli antichi non resta, tuttavia, ancorato solo a una dimensione letteraria, ma radica le sue riflessioni nel profondo di un sistema complesso e articolato in cui scienza e poesia, biologia e filosofia si avvicendano in un armonioso continuum.

Tesi di fondo del volume, la convinzione di una prossimità profondamente avvertita nel mondo classico tra universo vegetale e umano. Attraverso un percorso che procede dalla riflessione aristotelica alle testimonianze pliniane, ai racconti degli antichi mitografi e grammatici, i miti celebrati o rievocati dai protagonisti della letteratura greca e latina sembrano celare più di un messaggio relativo alla continuità tra alberi e uomini, tra natura e civiltà. A svelarlo, anzitutto, i racconti di metamorfosi, molti dei quali trasmessi dallo straordinario talento onirico di Ovidio, nelle cui narrazioni molto spesso trova posto la trasformazione arborea di protagonisti travolti da un tragico destino, che vedono mutare la propria forma, mentre escono dal mondo dei vivi, senza tuttavia entrare in quello dei morti: andrebbero ascritte a questo fenomeno, ad esempio, le vicende di Mirra e di Dafne. Ma non solo. Proprio il mito dell’alloro testimonia di un’altra significativa relazione tra diverse categorie di esistenza: quella, cioè, che si configura tra un dio e una determinata specie vegetale. Se ad Apollo non si può non associare il lauro, a Zeus, invece, si connette fortemente la quercia, per la sua grandezza, la robustezza e la lunghissima durata del ciclo vitale.

Riflessioni di ordine linguistico ed etimologico si intrecciano affabilmente a considerazioni antropologiche ed etiche di grande fascino, all’insegna di un forte senso della connessione, come testimonia il capitolo dedicato al rapporto tra alberi e bambini, anzi, per essere più precisi, tra corpi di alberi e corpi di bambini. Ad aprire questa suggestiva sequenza, la vicenda di Polidoro, il figlio di Priamo che, portato via dalla guerra perché si salvasse, era invece stato tradito e ucciso dal re tracio Polimestore, cui il padre lo aveva affidato. Quando Enea con i suoi, in un primo tentativo di stanziamento, avevano provato a fermarsi in Tracia, nello sforzo di svellere dal terreno alcuni rami di corniolo e mirto, videro sgorgarne dalla corteccia stille di sangue vivo: da lì, oltre al sangue, fuoriusciva una voce, quella di Polidoro, che invitava gli Eneadi a lasciare per sempre la terra maledetta perché impregnata del suo sangue innocente.

L’umore degli alberi e dei cespugli, che nel mito appena narrato è propriamente sangue, è invece, in altri tipi di testo, assimilato e assimilabile ad esso in quanto linfa vitale: la metafora scalare procede, quindi, a vari livelli rispetto all’assimilazione tra organismo vegetale e animale, sicché la polpa, se si parla di frutto, può essere immaginata come carne, mentre negli alberi i rami sono le braccia, le foglie la chioma e le radici i piedi. Coincidenze lessicali ed espressioni metaforiche si sovrappongono e si fondono, come è possibile osservare, ad esempio, nella scrittura di Plinio il Vecchio, che alla descrizione della natura dedica pagine ricche e ispirate. La coincidenza semantica si fa stringente nella relazione tra il lessico che descrive embrioni e bambini, e quello relativo a semi e piante. I fenomeni assimilativi, d’altronde, non si fermano a livello del mito né a livello linguistico, ma si intensificano anche a livello di personaggi storici: più di un capitolo indugia sulla stretta relazione che biografi antichi ricostruivano sulla scia di presagi capaci di saldare strettamente le vicissitudini di uomini straordinari – Alessandro Magno, Romolo, i Cesari, e Virgilio – a particolari alberi che quasi ne costituiscono un doppio vegetale: la crescita e la morte di una pianta possono rappresentare la cifra simbolica del fiorire o dello spegnersi della vita di un singolo, o persino di interi gruppi sociali. Ma è forse nell’ultima parte del libro che si apprendono i concetti più sorprendenti: nel capitolo dedicato a La religione degli innesti si insiste sulla lettura di questa peculiare pratica agricola come una sorta di alterazione dell’ordine naturale delle cose, tale da poter essere assimilata all’adulterio nelle relazioni umane. In questa prospettiva, il verso dell’indagine si inverte e il paradigma del comportamento si dispiega non più a partire dalla natura, ma dall’uomo, che in virtù della sua implacabile curiositas non sa o non vuol porre limiti alla creatività, e non si arrende dinanzi al fatto che il numero delle specie vegetali di per sé esistenti debba comunque conoscere un argine. Particolarmente prudente rispetto a questa frenesia, ancora una volta, Plinio il Vecchio, che nella sua Storia Naturale sostiene in più di una circostanza che non tutti gli accoppiamenti sono ugualmente leciti – pur se tecnicamente possibili – e che alcune combinazioni vadano evitate per ragioni connesse all’esistenza di una sorta di norma sacrale: il piano lessicale conferma tale prospettiva nella misura in cui in più di un autore i termini relativi ai prodotti di innesti ritenuti impropri o inopportuni afferiscono alla categoria semantica del mostruoso. In tal senso, Plinio non solo non rimane isolato, ma trova conforto in illustri predecessori e contemporanei: le testimonianze di Teofrasto, Ovidio, Plutarco, confermano una comune percezione del monstrum botanico: l’accoppiamento di alberi tra loro alberi eterogenei, ossia l’ “innestare sulla medesima pianta gemme o rami provenienti da un gran numero di specie diverse, in una sorta di accumulo disordinato e capriccioso che sembra avere come unico scopo il desiderio di giocare con la natura e di sondarne le possibilità combinatorie”. Gli innesti, come gli ibridi, tradiscono, secondo Lentano, il desiderio di voler preservare al sacro alcuni ambiti, oltre i quali la tecnologia umana non dovrebbe spingersi, come a saper riconoscere il proprio limite: riflessione, quest’ultima, che non potrà non suonare preziosa e familiare a chi con il mondo classico intrattenga una frequentazione di lunga data.

A chiudere la gallerie di possibili relazioni tra umano e vegetale, Gli alberi degli impiccati, l’ultimo capitolo, prima della sezione finale del volume, tutta riservata ad una ricchissima e aggiornata bibliografia sul tema. A introdurlo, a mo’ di preludio il mito di Fillide, principessa tracia che, alla morte dell’amato Demofoonte, si dà la morte impiccandosi, secondo molte versioni del mito. Se, come ricorda Lentano citando Nicole Loraux, il laccio rappresenta “il modo tragico di uccidere una donna” nelle culture antiche, è anche vero che proprio la morte per impiccagione viene considerata particolarmente infamante, in quanto preclude il contatto con la terra che solo avrebbe garantito la corretta “chiusura del ciclo vitale, con un ristorno al medesimo suolo sul quale si era stati deposti appena venuti alla luce”. Disonorati per sempre, i corpi dei suicidi potevano rimanere abbandonati, senza sepoltura, e le loro anime non si sarebbero mai integrate nell’oltretomba. Infelices dunque gli alberi scelti come procacciatori di morte, incapaci, cioè, di produrre frutti, o anche solo di virere come l’albero cui Fillide si era impiccata, a testimoniare, una volta di più, che nel mondo antico universo umano e arboreo vivono in una sorta di continuità, tale per cui l’essere umano sembrerebbe risultare alla fine di un processo che proceda per aggiunzioni progressive a partire dal grado zero dello statuto vegetale. Giunge così alla fine un percorso ampio, ma pur sempre troppo breve per il lettore appassionato, grazie al quale Mario Lentano invita a guardare oltre la modernità occidentale che, nel corso dei secoli, lentamente e inesorabilmente ha distanziato l’uomo dalla natura, “derubricando” la prima a risorsa” e lasciando gli uomini in un avido e cieco isolamento.