Verso la foce – Riccardo Canaletti

Verso la foce, Riccardo Canaletti (Interno Libri Edizioni, 2024).

Riccardo Canaletti ha pubblicato già le raccolte La perizia della goccia (2017) e poi Sponde (2019). Fino a questo nuovo volume in cui si percepisce uno scarto deciso, come a voler mediare l’osservazione cristallina del mondo con i sentimenti che suscita e quindi con l’intendere le cose della vita. Il libro è diviso in tre sezioni, omogenee nella lingua, seppure chiaramente distinte, giacché ognuna esprime una visione e l’acquisizione di una consapevolezza sottile, che non è mai pura contemplazione di immagini.

Nella prima, “Sostanza lieve”, che traduce la nostra fragilità, il poeta affronta un corpo a corpo con un evento umano, naturale e naturalmente dirompente. Come si racconta la malattia, la morte di una figura cara? Nello sguardo del nipote (proprio all’inizio, quando la patologia e il dramma si rivelano e assumono un nome irrimediabile) c’è poco da spiegare, basta osservare. Subentra così la pietas verso il nonno, per lasciarlo libero nel suo cammino, libero anche di smemorare, mentre l’immagine si allontana in dissolvenza, a bassa voce. È difficile prendere atto dell’abisso che la morte annuncia, fin quando percepiamo questo tutto d’universo / che trapassa, fin quando cioè la neve è un pallido / spazzino notturno / raccoglie le nostre miserie. Allora si spalanca il mare, visto dal porto (un topos centrale nella poesia di Canaletti). Il mare che abbraccia, compiendo un gesto di madre, che nell’infanzia di tutti rassomiglia le nostre vite. L’orizzonte visto dal porto è qui chiara metafora del trapasso, in cui il corpo lascia la sua ultima fisicità, ormai inafferrabile.

La seconda sezione, “Frammenti di case”, sembra proseguire la “Suite del sisma” (nel primo libro), perché dopo la morte riprende la vita, però a frammenti (come appunto a voler ricostruire le macerie dopo il terremoto). Qui il linguaggio è coerentemente destrutturato, quasi privo di punteggiatura. La visione è come quella radiografica, anche le stagioni sono contraddistinte dai gesti, di cui però vediamo solo la conseguenza (un vasto / richiudersi di scuri / segnava ch’era estate). C’è un mondo rurale, ma sempre sullo sfondo, il mare. La parola tende ancor più all’essenziale, ma stavolta non dettata dal dolore, bensì prosciugata, arsa dal sale e dal vento. Oppure dal troppo guardare.

Infine, nell’ultima sezione, “Verso la foce”, il verso torna a distendersi, si fa piano. Si acquieta quasi. Tutto sembra ricomporsi lentamente, come l’associazione delle tessere di un puzzle. L’infanzia è una stagione lontana, ma è una memoria senza rimpianto. Diventa invece rinnovata occasione di conoscenza. Ovviamente riverbera il porto, la sua metafora immensa, il corpo del pescatore che torna e si fa dono di vita. Vita in cui ci è dato crescere intorno all’amore che non siamo noi a “fare”, ma si pone come dono che a noi viene, insegnando anche a spaventarsi / di fronte alle montagne, cioè a nutrire la profonda e più autentica meraviglia, che ha pur sempre a che fare con il “mirare”. Ecco che il solo guardare è “significare”, dare senso. E allora la “foce” appare come un’apertura, una liberazione, ma anche come punto da cui ripartire, risalire il fiume fino alla sorgente.

Nicola Bultrini

 
 
Dalla sezione “Sostanza lieve”
(Per mio nonno nei primi mesi di Alzheimer)
 
A volte si allontana
lungo una filigrana di alluminio
la lancetta. La segni
con il dito sul vapore
lungo il mare dei tuoi limiti.
 
Non esci più, siedi
accanto a mio padre
che ha negli occhi
l’onda vasta del tuo nome
di cui sono
conca esausta.
 
 
 
 
 
 
Dalla sezione “Frammenti di case”
 
Essere un uovo in un prato
cioè un bambino
che corre tra l’erba.
 
È facile essere un uovo
e rompersi.
 
O così sembrare
in controluce all’occhio
che solo una madre.
 
Sono nato a novembre
e mio padre mi dipinse
come un uovo al centro
di un campo senza stagione.
 
 
 
 
 
 
Dalla sezione “Verso la foce”
 
L’iride nel pomeriggio
contro un terrazzo
e l’ombrellone, il grande fiore
bianco della nostra
prima estate.
 
È come nascere
rivivere l’infanzia
in un campo d’oratorio
la merenda, la scarna
preghiera e il rapido
tornare a rete.
 
Ora so dov’eri
nel suono delle campane
nel cerchio d’ombra
di una quercia dove sedevo
a guardare la partita.
 
 
*
 
 
Chiedo bellezza e l’idea
di un sasso che non tocca mai
il buio nello stomaco
 
che tu mi insegni
il modo di spaventarsi
di fronte alle montagne
 
con il dito che finisce
dove iniziano due
orecchie di mucca
fra i fiori gialli.