Sono trascorsi vent’anni dalla pubblicazione di Umana gloria (Mondadori, 2004), l’opera che ha fatto conoscere a un pubblico più ampio la scrittura del poeta italiano Mario Benedetti (1955-2020), la cui opera è stata riconosciuta come una delle più importanti del nuovo millennio.
Il volume – ristampato da Garzanti nel 2017 insieme ai due successivi Pitture nere su carta (2008) e Tersa morte (2013) – è il primo capitolo di un percorso di esplorazione della mortalità e del senso del linguaggio, attraverso una costellazione di storie familiari, ricordi, figure e paesaggi amati. Ma al di là del significato che il volume acquisisce alla luce del cammino poetico successivo, Umana gloria appare in realtà un libro composito e paradossale che, pur mostrando una grande unità, stratifica tempi diversissimi, paesaggi a tratti incongrui e vite fra loro incompatibili. Il volume affianca infatti prosa e versi, testi recenti e riscritture di poesie già edite – alcune addirittura appartenenti agli anni della giovinezza dell’autore – componendo nel medesimo libro ricordi dell’infanzia e del terremoto in Friuli (1976) insieme a immagini di una città fra fine anni Novanta e inizio Duemila (Milano, Torino, Genova), paesaggi della Bretagna e della Normandia e ancora schegge e memorie di una terra di confine fra la Slovenia e l’Italia. Anche grazie a questa varietà di scorci e tempi, Umana gloria offre un senso di unità sospesa, a pari distanza fra un preistorico passato che non smette di tornare e una contemporaneità che stringe chi dice io a un rovello di solitudine, a un prolungato dubbio sul senso stesso del proprio dire. A unire gli opposti è però in Umana gloria lo sguardo sempre rasoterra, attentissimo alle più umili datità materiali, e un verso lungo che asseconda nelle tortuosità sintattiche le percezioni più minuscole al servizio di un io intermittente, tremante: Mario Benedetti consegna alla poesia italiana una meditazione sul soggetto e sulle possibilità di rappresentazione del linguaggio da cui nessuno, dopo di lui, ha potuto prescindere. A questo allude del resto il titolo – forse un calco petrarchesco – Umana gloria: «Povera umana gloria/ quali parole abbiamo ancora per noi?» La poesia cerca di restituire nel linguaggio la puntualità inesprimibile dell’esperienza («dove il mondo è stato unico e minuscolo», «dove durano i libri»), ma si trova a fronteggiare un costante dissolversi, una costante dispersione e esso sembra sempre sul punto di mancare il suo oggetto e restituire parole che sbagliano, che lasciano al linguaggio la sola possibilità di sostare in un anacoluto o su di un’interrogazione.
Anche per via di questo continuo esercizio sui limiti del linguaggio e la sua «fievole istoria», ci sembra opportuno celebrare l’anniversario dell’uscita di questo importante libro chiedendo ad alcuni studiosi che se ne sono variamente occupati, di raccontare come hanno incontrato la poesia di Benedetti e di offrircene una lettura, scegliendo – fra i molti stupendi – il testo che gli sembrava il più opportuno per accompagnarci nella poesia di Mario Benedetti.
Roberto Cescon, Tommaso Di Dio
Continua con l’articolo di Riccardo Socci su Pordenoneleggepoesia
Foto di copertina di Dino Ignani