Vedrai te stesso come un altro – Mario Fresa

Vedrai te stesso come un altro - Mario Fresa
 
 
 
 

Due volti guardano e richiamano l’attesa di un destino conosciuto. Due volti, femmina e maschio, animus e anima, si guardano a distanza; e da noi sono guardati.
Grazie alla coppa magica, la mente parla e danza; e nella duplice sfera dei movimenti, il corpo vede e suona, vola e scompare.

Qui c’è tensione, incastro, amore acuto degli opposti.
Due le figure: entrambe sono l’eccelsa e l’infima, la chiusa e la matrice.
La Menade è severa, perché dimentica di sé: in questo modo appare, allora, come uno e nessuno. Perciò la femmina decide di ritrarsi: non è attaccata, vedi, a sé stessa, ma tende, invece, ad accogliere e a scacciare, a contenere e a separare.

Lo scritto, infatti, riconduce all’orale; e continua in questo modo, per molto tempo.
La femmina è il volto che adesso manca all’uomo, e dunque l’una diventa l’altro, senza continuità. Ora il sileno stabilisce una sottile forma di libertà: rimuovendo senza tregua la sua ferma incontinenza, resta legato alla sua ombra larga; e allora brama e si disperde.

 
Vedrai te stesso come un altro - Mario Fresa 1
 

«E se quindi ti mute, troverai la Ventura»: così s’impone tutto il rispetto – ed è «speranza di una persona amata»; si profilano, allora, senza una vera intesa, l’indifferenza e il bacio. La fortuna, dunque, tu mi dicevi, è un’assenza di guerra; e si rinnova la decisione di non vedere noi stessi, ma ciò che abbiamo dimenticato.

La lucerna ti ha guidato a ricercare la dolcezza severa dell’assenza («felicità, non t’ho riconosciuta che al fruscio con cui ti allontanavi…»). E infine: se l’uno ci ha chiamato, l’altro restituisce qualche inciampo, e ci lascia un aspro dono, una selvaggia forma di salvezza.

Da questa nuova immagine potrai capire: se la lucerna è piena, la bocca non è felice.
Ma pronunciando una parola sola, breve e tagliente, la lingua dà l’ordine e finisce; e ricomincia a interrogare, a ricambiare, a togliere, a volere.

Lo scritto, infatti, riconduce all’orale; e continua in questo modo, per molto tempo.
La femmina è il volto che adesso manca all’uomo, e dunque l’una diventa l’altro, senza continuità. Ora il sileno stabilisce una sottile forma di libertà: rimovendo senza tregua la sua ferma incontinenza, resta legato alla sua ombra larga; e allora brama e si disperde.

Torna, così, la Menade che impara intanto a divorare e a distruggere la carne del cantore; e il gioco è adesso chiaro: «Vedrai te stesso come un altro».
E per questo si stabilisce una profonda, inaspettata unione: e nel bianco matrimonio si avvertono i segnali di chi si lancia e non si muove, e di chi brucia e resta lucido e incombusto; ultimo e primo; povero e fiero.

La lingua non ricorda, ma ferisce; e poi dimentica e riceve; e così via.

 
 
Mario Fresa (inedito)
 
 
 
 
 
 

Con la sempre più flebile distinzione tra prosa e poesia, con alcune discussioni (mai veramente approfondite) sulla prosa poetica, il limite del verso viene sempre più lasciato al gusto dell’autore che ne crea la misura. Se funziona, bene, se non funziona, andiamo avanti.

Non vorrei essere troppo brutale nella demolizione di buona parte della poesia contemporanea ma è indubbio che l’aver perso il punto di riferimento della metrica, e l’aver voluto dare ostinatamente voce a tutti nell’ormai altrettanto indubbia nuova ignoranza che abbiamo assunto (sappiamo tutto ma conosciamo pochissimo), abbia sgretolato non solo il potere creativo ma anche l’opzione critica.

Se saliamo sul palco e tutti vogliamo avere voce, e se il palco si rompe, ecco allora il poeta che ti caccia ha un senso. Ma se rimani a pretendere di avere voce anche lì sul malfatto, sulle macerie, logorando ancor più il contesto per il tuo egoistico bisogno di essere riconosciuto (possibilità fattibile solo se tutto il contesto si abbassa al tuo livello, quel livello che ha fatto crollare il palco) ecco allora può accadere una e una sola conseguenza. Quel poeta che ti caccia alla fine rinuncia a cacciarti, e non per il tuo valore.

E arriviamo alla situazione letteraria contemporanea, dove la critica non esiste praticamente più se non in qualche timida isola relegata ai margini per non dare troppo fastidio al mainstream.

 

Questa piccola introduzione mi serve per introdurre e far comprendere la bella operazione che Mario Fresa compie in questi inediti. Si sta parlando delle Menadi e dei Sileni, figure immerse in un rapporto eternamente dialogico e oppositivo, sempre fondato sulla segreta coincidenza e sull’aperta antinomia del legame che stringe e disunisce l’interiorità e l’esterno, il maschio e la femmina, il silenzio e il grido.

Sono figure che raccontano il mito della tragica duplicità e dell’ambivalenza di ogni essere umano. Una duplicità onorevole perché sostanziale seppure opposta. Ed è Fresa stesso a spiegarne sottilmente lo stile che abbandona il verso prediligendo la prosa, ma non tralasciando la poesia.

 

Lo scritto, infatti, riconduce all’orale; e continua in questo modo, per molto tempo.
La femmina è il volto che adesso manca all’uomo, e dunque l’una diventa l’altro, senza continuità.

 

Tale affermazione, Lo scritto, infatti, riconduce all’orale, non può che obbligarci a una riflessione estremamente attuale: scripta manent, è ancora così? Oggi scriviamo sui Social eppure tutto ha un’obsolescenza programmata importante. La letteratura, le edizioni di libri, le persone stesse (anche attraverso quell’enorme definizione di società liquida di Bauman) hanno una vita programmata per finire entro breve. Nulla dura, nemmeno gli scritti.

L’operazione di Fresa in questa direzione, anche se si trattasse di un unicum luminosissimo, merita un plauso in quanto si pone la domanda dell’origine dello scritto, dell’orale, delle relazioni che hanno fra di loro oltrepassando l’obsolescenza e diventando segno.

Il mito, in effetti, è segno, tratto della verità umana incontestabile reso racconto.

 

Voglio soffermarmi ancora un istante sul concetto di obsolescenza in quanto Fresa chiude l’inedito con un’affermazione altrettanto significativa:

 

La lingua non ricorda, ma ferisce; e poi dimentica e riceve; e così via.

 

La lingua dimentica, ma non si tratta di obsolescenza. Le P di Dante vengono cancellate ma non è obsolescenza. Adorno afferma che non si tratta di conservare il passato ma di realizzarne le speranze, e ancora una volta non siamo di fronte all’obsolescenza.

 

E allora forse lo scritto di Fresa ci mostra che non abbiamo solo costruito un mondo a breve termine, col respiro corto, ma abbiamo rinunciato ad esso:

 

Da questa nuova immagine potrai capire: se la lucerna è piena, la bocca non è felice.
Ma pronunciando una parola sola, breve e tagliente, la lingua dà l’ordine e finisce; e ricomincia a interrogare, a ricambiare, a togliere, a volere.

 

Nel mito ciò che finisce termina per un motivo. Assolve, risolve, ricostruisce. E Fresa molto puntualmente nella tensione fra gli opposti lo sottolinea facendo emergere, per contrapposizione, la nostra situazione attuale di conclusione a perdere, lineare, di nascita e morte che si preclude la circolarità di un ritorno. Di una lezione.

 

Non a caso emerge in Fresa, sempre in ottima contrapposizione con il mondo attuale, l’affermazione:

 

Vedrai te stesso come un altro.

 

Alessandro Canzian