Avevo già parlato qui del primo libro di Manuele Morassut, tradotto nel friulano occidentale, precisamente quello del comune di Zoppola, utilizzata sia nella variante paterna, di Castions, affine al casarsese di Pasolini, che in quella materna di Zoppola, che presenta influenze del “folpo” di Cordenones da Silvio Ornella. Ma l’occasione della presentazione di oggi, nella quale prenderò il posto di Marco Marangoni (impegnato altrove in maniera imprevista), mi dà modo di oltrepassare la brevità del precedente articolo per tornare a fissare alcuni concetti che trovo interessanti di questo libro.
Una stazione/’Na stassiòn viene edito nel 2014 dalla Biblioteca Civica di Pordenone sotto il logo Piccola Biblioteca di Autori Friulani. La particolarità della lingua di Morassut (perchè in questo contesto di particolarità si tratta) è che non nasce in friulano, ma in italiano, ribaltando in qualche modo l’uso (e a volte anche l’abuso) che in edizioni simili se ne fa. Ovvero quello di tradurre in italiano un testo che nasce in dialetto. Morassut invece necessita dell’intelligente apporto di traduzione di Silvio Ornella proprio in senso opposto, e senza una lettura del libro quasi si potrebbe pensare a un escamotage per l’inserimento nella detta collana.
In realtà le poesie dicono altro, e lo dicono bene. Dicono vent’anni di lavoro e osservazione in seno al gruppo Majakovskij di Giacomo Vit, di reading e di vita vissuta, in soli 37 componimenti che tra l’altro si presentano scarni fino all’essenziale. Giocando un po’ si potrebbe quasi contare quanti caratteri effettivamente compongono il volume e ci si accorgerebbe che probabilmente nemmeno bastano a fare un libro (ma in fondo anche un altro stupendo libro di poesia in dialetto recentemente pubblicato vive della medesima brevità, Trin freit/Spavento freddo di Giacomo Vit – La Barca di Babele 2015 – se ne può leggere qualcosa qui). Ma un’opera completa si, perchè dentro c’è tutto in una sua rotondità assolutamente esauriente.
Preannunciavo che le poesie dicono altro in relazione a questa traduzione atipica che però trova, sempre nei testi, una sua pulitissima coerenza. È un libro che nasce in seno al Majakovskij, prevegole gruppo impegnato squisitamente nella ricerca della lingua (e il dialetto lo è). Morassut sceglie una sua lingua, e oltre ogni evidenza sceglie il suo dialetto: l’italiano. E lo fa con le medesime dinamiche che sono state proprie dei nostri grandi dialettali, uno fra tutti Bartolini (in questo modo giustificando l’inserimento in una collana dialettale). Il quale tornando da Roma trova un paesaggio completamente cambiato e lo canta e lo protesta. Così Morassut torna/si ritrova nel paesaggio di questi anni (perchè se c’è una cosa fondamentale che il Friuli ha insegnato è che tutto è paesaggio, anche la vita, il tempo) e scopre che tutto è cambiato e non sono più centrali i vecchi punti di riferimento che però davano una certezza: Sommerso dal vuoto / di art directors, / chips e banalità, / ancora mi emoziona / un filo di nebbia, / basso / sul verde del grano / che sta nascendo. Punti di realtà che al contrario dei campi non sono scomparsi ma esistono oltre il concetto di resistenza. Perchè sono lì nella loro essenzialità, anche se l’uomo non li vede più a causa dell’aridità della vita che si è costruito attorno.
Parlo non a caso di Bartolini perchè questo suo ritorno da Roma in Friuli è ciò che poi si ritrova nell’ossatura di questo libro, e cioè il viaggio. Emblematicamente Morassut inizia la sua opera con un testo sull’autostrada: Il camion si ferma e l’autista scende, / senza capire la strana lingua / della pubblicità, dei chilometri, dei giorni. E lo conclude circolarmente nella medesima maniera, pur speculare: Lontano da logiche autostradali, / incrocio il tuo volo. / Polline portato dal vento di Marzo, / candida scia silenziosa. / Traiettoria non parallela, / battito d’ali. Un ritorno cioè alla natura di contro al vuoto egoismo delle persone (Nel tuo dizionario, / lucidamente cercato / in chissà quante librerie, / Rotary viene prima di sorriso, / compleanno prima di incontro / mio prima di nostro), alla loro indifferenza sentimentale e non (Ma, tra un amore e un addio, / è una crepa a catturare l’attenzione), alla loro scoperta impossibilità di parlare di ciò che è fondante la vita stessa (Ora che volo solo in borsa / e inseguo megatrend, / non capisco chi parla / dei sassi della piazza, / dei gradini del campanile, / dei pesci del fosso).
Un libro che già nel titolo parla di viaggio, e di sosta. Perchè a ben vedere la stazione è sì il punto dove si arriva e il punto da cui si parte, ma è soprattutto il punto in cui ci si ferma un attimo e si osserva tutto il resto andare. Ma cos’è quindi questo viaggio? Qual è la sua forma, il suo significato? Morassut non nega e non si nega una risposta, piena della storia della sua terra (il Friuli è area di grandi bevitori) e della sua vita: Viaggiare? / In cerca di chi e cosa e quanto e quando? / Non servono carri, treni, navi, aerei? / «Oste, presto. Una bottiglia, presto». Resto!. Una resa di fondo al mondo dove non c’è spazio per il polline portato dal vento che comunque esiste, che comunque vola. Dove il confine è stato già ampiamente segnato: Quello è il molo. / Subito dietro, lo scantinato / la polvere / il buio / la tangenziale / il pantano / la pioggia / gli alberi ammalati / le bottiglie di plastica. / Questo è il confine.
Morassut però non crea un canto della disillusione, dell’amarezza. Anzi spesso non crea nemmeno il canto poetico ma restituisce più un dialogo tra amici dove la poesia è nell’ultimo punto, nel compendio di ciò che ha detto, perchè in quello è la vita, l’esperienza. Parla di vuoto, di indifferenza, di incomunicabilità, di dolore della vita ma senza la drasticità di un tono acuto, anzi quasi sorridendone (Senza cuore il falegname. / Trapana la porta nuova con il sorriso sulle labbra. / Martella convinto il mobile appena sballato. / Sega imperturbabile tutto quanto è necessario / Ed è questo suo tagliare sicuro e senza lacrime / che mi rapisce). Un poeta che parla della solitudine non tanto della terra dove non c’è più l’uomo, ma dell’uomo che non ne ha più il tempo. Un poeta che però non caratterizza tale solitudine come un dramma disperante ma anzi come un ritorno. Un ritorno privato, intimo.
Ma non c’è vita, non c’è ironia, non c’è bevuta, non c’è ritorno e non c’è nemmeno paesaggio che non implichi una delle caratteristiche più pregnanti dell’essere umano, e più toccanti della poesia di Manuele Morassut: l’amore. Un amore non facile, crepato e spezzato come intonaco che cade, per persone, per il mondo, per la vita, per la natura. Un amore che ha bisogno di fiori e fiumi per essere detto. Anche per essere provato, vissuto.
M F
Scavo fossi.
Erigo muri.
Brucio navi.
Ma continuo a perdermi,
pensandoti.
M F
I sgiavi fossài.
I tiri su murs.
I brusi nafs.
Ma ‘ciamò mi pièrt,
a pensati.
Sul lontano fiume Fedsa
e sulla sua misteriosa assenza
Di me,
lasciati erodere le sponde.
Scherzare sul tuo sfuggire d’anguilla
ma è opaco il sorriso che rimane
tra le dita bagnate.
Perdersi tra i tuoi capelli d’alga rossa
come in un’alba di Maggio.
Tuffarmi
e della tua siccità inzupparmi.
Intòr al flun lontàn Fedsa
e il so misteriòs mancià
Di me,
lassàti roseà li rivis.
Schersà dal to sbrissà di bisata
ma al è smarít il ridi ch’al resta
ta l’aga dai deic’.
Pièrdisi in miès dai to ciavièi di patùs ros
coma ta ‘na matina di Mai.
Butàmi
e dal to sec stonfàmi.
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