Una domanda al poeta: Maria Grazia Calandrone

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Parla un albero di Fukushima, 11.3.11
 
Non esiste nessuno da accusare. Nessuno contro
la paura per questo incomprensibile
male. Siamo così esposti. Così inermi. Invisibili come radiazioni.
Transatlantici e aerei da guerra
nella ipnosi nera
delle onde. Stavolta
è stato il mare. Ed è stata la terra. Tutto
oltrepassa la soglia della sua incandescenza. Nessuna madre
risalita dal fondo del mare – ci consola.
 
Terra benevola e terra tremenda
che mi sollevi. Le barre dei reattori sono esposte
ed è esposta la crudeltà del mare, esumata la solida amarezza
della madre. Nomi comuni di cose sconosciute. Ora la vedi
la morte sempre inclusa come un dubbio
nell’amore terreno. Ora lo vedi tutto l’abbandono.
 
Capelli neri come la montagna e colonne di suoni da attraversare.
Tieni alta la carne come uno stridere di freni. Sono
una cosa che ha sempre sperato. Una fiducia ottusa
nella bontà degli uomini e della natura. Solo per questo, solo per fiducia
nella bontà degli uomini e della natura mi è rimasto nel cuore
tanto amore. Ripercussioni. Scorie. Combustione stabile.
Ma io sarò per te il cuneo nel cuore. Il filamento nero di carbonio. Faticherai a distinguere le parti molli, ciò che di noi l’amore lascia vivo.
 
O corpi refrattari come favi – corpi – densi
gomitoli di luce
tra i sorrisi – àncora dei figli – la radiazione
del tutto libera da impurità.
Il cuore è un materiale sovraumano
ci spinge nel torace come un favo di miele.
Che l’amore sia questa creatura – e che sia!,
più feroce del sole.
 
 
 
 

Faccio riferimento ad una sua poesia che mi ha colpito. Si tratta di Parla l’albero di Fukushima (dalla raccolta Il bene morale“, Crocetti Editore). Mi ha colpito in particolare l’idea di identificarsi con un albero per esprimere il dolore per una tragedia che ha coinvolto – e sconvolto – la vita di tutti gli esseri viventi di quell’area geografica – sia le piante che gli animali che gli esseri umani. Lei ha scelto di parlare con la voce di un albero piuttosto che non, ad esempio, con quella di un essere umano. Stessa scelta, peraltro, che si ritrova alla pagina successiva (la poesia Parla l’ulivo, dove è ancora un albero che assorbe su di sé la sofferenza di un essere umano).

Vorrei chiederle il perché – se c’è un motivo specifico – di questa scelta particolare. Grazie.

 

Loretta Tartufoli

 
 
 
 

Katherine Mansfield scrive che, osservandola a lungo, sarebbe potuta diventare una mela. L’esercizio di identificazione è l’esercizio fondamentale della poesia, altrimenti parleremmo soltanto a nostro nome (di autori) e, dunque, di noi stessi, cosa quanto mai indecorosa. Credo dunque necessario prestare la propria voce alla nostra immaginazione di altri, non sapendo se siamo riusciti o meno nel nostro intento, ma osando.

Inoltre gli alberi (ancora più degli animali, che possiedono la facoltà di fuggire), sono vittime incolpevoli degli errori umani e, insieme, come scrivo nella seconda poesia del Bene morale, sono esempi di pervicace vitalità, riescono a rifiorire da quasi nulla.

Grazie per la sua domande, alla quale spero di avere riposto.

 

Maria Grazia Calandrone