Una domanda al Poeta: Franco Buffoni

foto di Dino Ignani

 
 
 
 
Doppio Fregio
 
Per quando col mio corpo del ventesimo secolo
Sarò un relitto tra gli adolescenti
Delle classi del dodici e del tredici,
Come Caproni e Sereni, classi belliche.
Una vecchia iena di passaggio anche lì come dovunque.
Ma poi un tè con Cristina da Pizzano e Ildegarda di Bingen
Servito al tavolo da Jacques de Voragine
Con Eleonora d’Aquitania e Bianca di Castiglia
Nel divanetto accanto.
Perché, come per il navigante è dolce
L’approdo in un porto,
Fregio, doppio fregio, doppio doppio fregio,
Così per il calligrafo è la stesura dell’ultimo versetto,
Scrive e decora frate Agostino da San Gimignano
L’ultimo giorno di febbraio dell’anno 1299.
 
(da La linea del cielo, Garzanti, 2018)
 
 
 
 

Gentilissimo Franco Buffoni, in una epoca senza dubbio segnata da un’ottica onfaloscopica, sembra che la poesia di Buffoni si confonda alla persona dello stesso, e alla stigmatizzazione sociale. Per questa ragione, però, è come se la personalità poetica si sostanzi nello stigma, e nello stigmatizzato. In questo ci si deve leggere qualche significato che può trapassare la lettera, perforarla?
Oltre a questo: se la poesia fosse essa stessa uno stigma (e quindi penetrando nel nocciolo luminoso del quesito) come mai vi è questa trasfigurazione, questa fuoriuscita dal singolo, dal soggetto poetante, per assumersi il peso del collettivo?
Ne La linea del cielo è preponderante l’elemento della memoria. Essa, ricalcando la dialettica per cui dal singolo si giunge all’elemento organico dell’umanità nelle sue relazioni, sembra quanto sia da doversi assumere come fondamento alle gesta umane.
In effetti, molti sono i nomi di altri autori che popolano le pagine dell’opera: Betocchi, Marin, Zanzotto, Caproni, Pagliarani, Segre, Sereni, Keats, Kafka, Kavafis… sembrano persone con cui Buffoni intrattenga ed abbia intrattenuto un dialogo lungo la vita, che è le vite, ogni giorno. Come mai questa esperienza nella Sua poesia?

 

Carlo Ragliani

 
 
 
 
 
 

Rispondo iniziando dalla fine. Quella qui riportata è l’ultima poesia della raccolta La linea del cielo: partendo dalla consapevolezza di una fine non molto lontana nel tempo, pensai all’unico paradiso possibile, quello insieme a personaggi del millennio scorso, che nel paradiso credevano davvero, vissuti in una borghese situazione straniante da sala da tè, per chiudere come chiudevano gli antichi copisti: fine del lavoro.

Allora (2018) pensavo che La linea del cielo sarebbe stato il mio ultimo libro di poesia. Poi la forzata clausura dell’ultimo biennio mi ha indotto ad una ardita riflessione su micro e macro (microbiologia e astrofisica) ed è nato il nuovo libro Betelgeuse e altre poesie scientifiche, appena uscito da Mondadori nello Specchio.

Sulla presenza nella Linea del cielo di numerosi vecchi maestri – che ho avuto modo di conoscere o comunque di studiare a fondo in varie fasi della mia vita – si è espresso con grande acume Gian Mario Villalta: “Questa serie di incontri, più che ritratti o ricordi, una perla dopo l’altra inanellata sul filo dell’ironia, tradisce frequentemente un fatto chiaro e clamoroso: li ha amati, i poeti, Buffoni, e per questo li ha anche detestati, all’occorrenza, esigente come un amante vero. Non le dobbiamo scoprire oggi le ambiguità dell’amore, i suoi doppi fondi, la sua mancanza di giustizia. E tra gli amori difficili, quello della poesia è dei più complicati e feroci. Così Franco Buffoni scrive una piccola, accidentata, divertente e a tratti tormentata autobiografia poetica, dove molto della biografia reale e immaginaria si dice e si tradisce. E dove pare ci chieda la complicità del sorriso, bonario o venato di sarcasmo, sentiamo che è per sciogliere un groppo in gola, per lenire una scalfittura. Certo, conosciamo l’equilibrio della poesia di Buffoni, né qui viene meno, e con l’equilibrio la sottigliezza intellettuale. Però ci sorprende un tratto nervoso, un dribbling stretto che ci lascia sul posto, uno scorcio che dovrebbe finire l’immagine e invece fa intravedere un oltre”.

Quanto alla prima domanda: certamente, la poesia è essa stessa uno stigma. Sono convinto che non sei tu a scegliere lei ma che sia lei a scegliere te, ancora quando sei incosciente, nella fase dell’impasto. Poi ci si mette la vita a costruirti attorno quelle esperienze che ti permettono di valutare e rivalutare tutto in versi.

 

Franco Buffoni