È un grande esordio quello di Gabriele Guzzi, che entra nel panorama poetico con la raccolta Un volto dal vuoto edito per Pequod (2023). La sua non è una ricerca facile: lo dice il titolo stesso, molto evocativo, cercare un volto nel vuoto, una presenza che possa dare un senso. Per fare ciò, non è scontato, il poeta è pronto davvero a scavare nelle profondità, e Guzzi molto spesso ci porta in quelle marine a conoscere animali ed esseri misteriosi.
La prima poesia tratta dalla prima sezione (il cui titolo è esattamente quello del libro), ha come voce narrante un capodoglio. Il poeta si immedesima perfettamente nell’animale, nella sua psicologia, nella sua inquietudine. “Non amo stare in superficie. / Il pesce sul pelo dell’acqua / Muore, ogni mattina”. La prima visione è in tutto e per tutto un insegnamento che continuerà per tutto il libro: andare a fondo, non aver paura degli abissi ma piuttosto averne per il “pelo dell’acqua”. Dice ancora il capodoglio: “Voglio gli abissi / E nient’altro”. Nella stessa sezione troviamo un altro animale, ed è sempre lui a parlarci in prima persona. Questa volta si tratta di un’iguana. L’immersione non è nel fondale oceanico, ma “nell’eterno / Umido dei muschi”. Passiamo dal mare alla terra, ma ben poco cambia: l’atteggiamento che emerge è sempre quello dell’oscurità in perfetta sincronia con la profondità. Infatti, presente è sempre il luogo buio, totalmente buio: per il capodoglio parliamo dei fondali marini, per l’iguana parliamo della notte. È nell’oscurità che gli animali sono più autentici: chi si lascia andare alla tranquillità e al riposo e chi, come i predatori, approfittano del buio per attaccare senza sospetti. L’iguana di Guzzi è così: “Sembro morta. / In realtà, / Sto attirando la mia preda”. E conclude con questo verso: “Non sono soggetta alle leggi del tempo”: prima parla dei suoi luoghi, delle “sorgenti della terra”, territori dove altre migliaia di iguane hanno operato facendo certamente la sua stessa vita predatoria. Ma questo non essere soggetta alle leggi del tempo non è solo un fattore geografico, bensì anche proprio, specifico dell’iguana di Guzzi. È il suo rapporto con l’eterno, con la notte, e soprattutto il suo rapporto con il proprio istinto: così sono stati i suoi avi, così è lei adesso, e così saranno le altre.
In questa prima sezione, “Un volto dal vuoto”, protagonista è proprio la ricerca del profondo, dell’abisso, della radice. Una poesia dedicata al proprio dolore ci riporta a questo concetto: “Ora so prendermi tutto il male / Che hai da darmi”. Sono “le mie braccia”, quelle del poeta, che accoglie questo dolore e intende purificarlo come fosse “un mare”. È ancora presente questo elemento: misterioso e imprevedibile come l’animo umano. Nella poesia “L’eterno vigore” viene descritto un passo successivo all’accoglimento del dolore: una nuova nascita. Infatti, il poeta ci dice: “Dove le grida taciute vengono accolte / E il terreno è fecondato, tu riemergi / Dal silenzio”. Se questo passaggio ultimo, fondamentale per la vita, di solito nella vita degli uomini non è scontato e spesso non avviene, per Guzzi è quasi naturale. Questo è possibile, lo leggiamo, se il “terreno è fecondato”. Il richiamo alla terra torna anche nella poesia successiva, in una forma grafica che torna in quasi tutte le poesie di questa raccolta. Sono presenti, spesso alla fine di un componimento, frammenti più o meno lunghi tra virgolette e scritti in corsivo. Questa forma fa pensare che ci sia un dialogo con un altro, forse con il vuoto del titolo, che ogni tanto irrompe nella lirica ed entra in dialogo col poeta e col lettore. Nella poesia “Ferragosto di una donna lavoratrice” leggiamo: “Non ti ho chiesto preghiere / Ma una terra dove potermi trapiantare”. Questi versi, letti nella propria unità con la poesia, riescono veramente a darci l’idea di un dialogo. E questo avviene sempre con la parte più profonda di noi che ci parla, e quindi continuiamo a verificare che c’è un “volto nel vuoto”, che quindi non è più “vuoto” ma abitato da una presenza viva. Già accennato il tema della terra, della radice, in precedenza, torna ancora come habitat in cui far nascere una nuova vita.
“L’ambiguità della soglia” è il titolo della seconda sezione, e in questa ci troviamo di fronte ad una riflessione ancora più limpida e vicina alla verità. Colpiscono questi versi: “Il rischio che a lungo fuggimmo / Oggi è la voce che ci chiama”. Le successive poesie della sezione esplorano proprio questa voce, ne cercano l’identità, ne ascoltano il suono. Il poeta ci parla poi di un “pericolo cristallino del risveglio”, che subito ci fa pensare ad una sorta di risveglio dell’umano che si accorge finalmente della verità. Ci si arriva con estrema fatica fisica e dolore, e come Guzzi ci suggerisce successivamente bisogna essere “poveri” per poter contemplare l’essenziale. Questo è il “lavoro più antico del mondo”, ed è un atteggiamento che dovrebbe appartenere ai poeti. Si lega perfettamente al concetto, di nuovo, della terra, che torna sottoforma di attività contadina paragonata all’azione del poeta: come anche al lavoro del chirurgo, i poeti e i contadini scavano nelle profondità (dell’anima, del corpo e della terra) e ne scoprono le viscere, le radici, il sangue inteso come elemento vitale e primario.
Nella sezione “Azione di popolo”, protagonista è il “Padre” in tante forme differenti. Il padre è colui che dà origine ad un popolo: troviamo il padre inteso come Dio (origine dell’uomo); il padre inteso come pater familias (origine del nucleo familiare); il padre inteso come “Itaca”, quindi come punto fermo a cui tornare. Punto nevralgico è l’amore della cura, di cui ci parlano questi versi: “Solo il padre celeste / Sana il padre terrestre. / Ricordalo. / Solo il suo amore colma la voragine / E dà la giusta prospettiva, / Guarendolo, // A ogni altro amore”.
La necessità di esplorare e scoprire sé stessi rimane, e forse un aiuto a riuscirci efficacemente viene proprio da un “padre”, o meglio da un’origine. Dalla poesia “Il padellaro” emerge il desiderio da parte dell’autore di rendere “commestibili” le sue paure. La metafora gastronomica è perfetta, e ci fa capire che è avvenuto un passaggio successivo e direi definitivo: la scoperta ultima dei propri demoni, del proprio mistero che si rende quindi “volto” tangibile. La poesia successiva, “Emanuele” ci fa capire ancora meglio questo concetto: “In un solo pozzo / ribolle il tuo destino / Come una sorgente / Da dissotterrare”. Ecco la fase essenziale: prima trovare il luogo da esplorare, averne il coraggio, e poi portare alla luce ciò che vi era nascosto.
Il concetto prima accennato del dialogo tra l’autore ed un “altro” all’interno delle proprie poesie è visibile nella poesia “Confessione di un marinaio”, che fa parte dell’ultima sezione “Il mestiere dello sposo”. Qui un marinaio intrattiene un dialogo che può sembrare interiore più che esteriore, con un’altra persona, ma non per questo meno efficace. Le parole del secondo soggetto sembrano inutili, non sembrano cambiare veramente la visione del marinaio che continua a dire “Sono solo e ho paura”, “M’ingolfo / Come un criceto che impazzisce / Nella ruota che si adombra”. L’altro continua a pronunciare le sue frasi di salvezza: “Svuotati! / Disperdi l’ansia di possedermi. / Sono il vento greco che ti salva”. Questo altro in dialogo prende più volti: prima è un luogo in cui poter scavare “un porto / Vuoto”, poi diventa “il vento greco che ti salva” e quindi elementi che il marinaio ora perso conosce però perfettamente. Questo dialogo sembra continuare nelle poesie successive, questa ricerca di stabilità e di riconoscersi nei luoghi è un’eco continua all’interno dei versi. Nella poesia “Cambio di residenza” torna l’idea di un luogo da poter riconoscere, ma questa volta lo sguardo del poeta è positivo: “E la mia casa / È questo cambio di residenza / Permanente, la tua fissa dimora”.
La certezza del poeta alla fine della sua raccolta sembra essere una, ed è spiegata bene alla fine della poesia “Estate a Maiori”: “Abitare insieme il centro della lotta / Non fuggendo non tremando ma danzando / Al ritmo del bombardamento”. La missione non è facile: non è da ricercare affannosamente la stabilità, la perfezione che non esiste, ma scavare il buio e dentro di lui farsi strada e trovare la luce. La “sola buona notizia” dell’ultima poesia “Comprensione iniziale” è proprio questa: che si può imparare a scavare nel buio, nel vuoto, e trovarvi un volto che ci parli.
Caterina Golia
Il capodoglio
Prima di dire una parola
Ho bisogno di molto scavare,
Di molto cavare
Da me, tutto il mio odio.
Non amo stare in superficie.
Il pesce sul pelo dell’acqua
Muore, ogni mattina.
Io sono il grasso capodoglio.
Voglio gli abissi
E niente altro. Starmene per ore
Giù, col peso dei quintali sotto i maestrali
A godermi la mareggiata.
Io voglio la bracciata sotterranea,
La cantata delle alte maree.
Voglio sprofondare
Nel canto dove il caldo
Ventre del mare abbraccia suo figlio
Prediletto, l’eletto
Re. L’inabissato.
(Dalla sezione “Un volto da un vuoto”)
Scuola di logopedia millenaria
II
Incontro le persone nel loro dolore.
Il resto non mi importa.
Non so parlarti
Se non dalla ferita.
Non so parlarti
Se non di cosa
Ci tiene muti.
(Dalla sezione “Azione di popolo”)
Comprensione iniziale
Solo amore io voglio.
Essere un piccolo
Vangelo.
Sì, ora lo so.
“Questo è il sacramento dell’umano:
Scrivere una sola buona notizia.”
(Dalla sezione “Il mestiere dello sposo”)