Un lunghissimo addio – Paolo Parrini

Esce, per la collana Rive di PeQuod, Un lunghissimo addio di Paolo Parrini. Autore che libro dopo libro ha saputo in maniera convincente far crescere la precisione del verso e del dettato, affondando con raro coraggio nelle ferite della vita senza però renderle eccezionali, senza urlarle alla commozione. La poesia di Parrini è paragonabile a un fiore che cresce nel freddo, che nemmeno aspira a spezzare la neve, ma soprattutto che non ostenta la sua bellezza perché non sa di averla o non lo trova importamte. Il fiore è, ma questo non basta a cambiare la vita.

La cifra maggiore dell’autore è una sorta di monotematismo non raro nella letteratura italiana (altrimenti chiamato coerenza, si pensi, con le dovute distanze, a Sandro Penna) ma capace d’involversi sempre più in un tessuto biografico che emerge talvolta, come è necessario che sia, ma senza diventarne l’obiettivo.

Nel libro precedente (Il quinto tempo, Samuele Editore, 2023) il prefatore Umberto Piersanti riusciva in poche righe a sintetizzare quel che ancor più nettamente emerge in Un lunghissimo addio:

Nella poesia di Parrini sono dunque presenti gli archetipi fondamentali della storia della poesia: accanto alla memoria, alla natura, all’amore, c’è anche il tempo. Il tempo non è solo memoria ma l’incessante e drammatico scorrere dei giorni e delle ore e non è facile esorcizzarlo, magari seduto fumando davanti ad un caffè. Rimane sempre questo ostinato tentativo di ritrovarsi in armonia, una difficile armonia.

Da questa difficile armonia, nell’ultimo edito di Parrini, emergono figure come il babbo, la mamma, Vittorio, Agnese che in particolar modo diventa Agnese occhi Siberia, tutti raccolti all’interno di un grande tu non istituzionale, non appariscente né virtuale (come purtroppo non di rado sono i tu dei poeti). E in questo vi è il coraggio di restare ancorati alla realtà accettandone non solamente l’antitesi, ma addirittura l’ossimoro che è intrinseco nell’amare.

Si leggano i titoli delle sezioni: Fra assenza e presenza, Grida e sussurri, L’amore e gli attimi, Fra estasi e agonia. Relazionarsi agli altri, che include in buona parte l’amare gli altri, implica l’accettazione dell’ossimoro, dell’inconciliabilità, della neve non spezzabile di cui sopra.

Si pensi un attimo al Simposio di Platone dove è raccontato il noto mito dell’androgino attraverso le parole di Aristofane. Secondo il mito all’inizio gli esseri umani erano creature sferiche, complete e autosufficienti, con quattro braccia, quattro gambe e due volti. Esistevano tre generi: il maschile, il femminile e l’androgino (appunto una combinazione di entrambi). Zeus però, temendo il potere di queste creature, le divise a metà, creando in ciascuna un senso di incompletezza e un desiderio di riunirsi alla propria altra metà. Da allora il mito dice che gli esseri umani vagano per il mondo cercando la loro metà perduta proprio come due parti di una mela che desiderano riunirsi.

Ma è proprio così? La poesia di Parrini dice sì, il cuore umano vorrebbe e forse in qualche misura ha addirittura bisogno sia così, ma non lo è. Siamo pezzi di puzzle sbagliati e che solo attraverso l’accettazione dell’incompatibilità, dell’incompletezza, riescono a combaciare nella misura del possibile, mai assoluta. Se questo concetto al lettore può risultare un poco aspro si pensi molto banalmente alla nostra capacità, nebulosa se non oscura anche per noi, di comprendere definizioni come eterno, infinito. Noi, che siamo limitati a un barlume di tempo in una minuscola pietra dove siamo così piccoli da giocarcela con gli atomi.

Però abbiamo bisogno di amare per sempre, noi a cui è negato il per sempre (e se qualche lettore vorrà qui inserire il concetto di anima ricordo quello straordinario passo di Masters: non ci sono matrimoni in cielo). È l’uomo, è il suo cuore l’ossimoro, la scheggia impazzita che respira nel mondo.

E il mondo entra delicatamente ma come elemento fondante nella poesia di Parrini. Il suo verso non di rado è descrittivo, estremamente descrittivo di luoghi naturali quanto sentimentali. Questo forse perché la natura e il paesaggio sono interlocutori più lineari degli esseri umani. Forse perché la natura e il paesaggio, in questi versi, riescono a riempire quella distanza necessaria al poeta a parlare a quell’enorme e doloroso tu ossimorico, aporetico potremmo dire.

Parrini è un poeta del dialogo che si sovrappone alla distanza. Serve, a Parrini, evidentemente parlare da una distanza che non è spaziale, geografica, ma sentimentale prima che psicologica, senza però negare i sentimenti stessi. In questo grande vuoto che è la nostra mente, dove i pensieri cadono e accadono come stelle cadenti, la memoria (a cui appunto fa riferimento Piersanti) diventa piano per non farsi erodere dalla vita. Così il poeta può parlare in silenzio alle contraddizioni della vita stessa confermando la sua scelta, il non voler rinunciare alla propria identità di uomo che ama.

In un testo particolarmente emblematico Parrini afferma Ho bisogno di credere e conclude con Al pane caldo / che mi assomiglia a Dio. Un Dio citato solo due volte nel libro (nel secondo e nell’ultimo testo, in questo caso in maniera importante nell’ultimo verso dell’opera) che viene connotato come ulteriore paesaggio, come albero che si sa esistere ma sta lì, sta ancora lì. Parrini infatti non è un poeta della fede seppure sia innegabile che la scelta di amare sia un sinonimo diretto di fede.

Colpisce, nella delicatezza di questi versi, la forza di resistere alla vita e alle sue dinamiche. Il lettore non abbia timore di chiedersene il perchè, perchè non gridare, perché non reagire con forza tentando altre strade magari sbagliando ma fuggendo dal dolore. Perché accettare l’umano? Lo dice Parrini in tre versi illuminati, solo apparentemente semplici: Ma il tuo odore e il mio / salvano la vita / sono l’attesa e il perdono.

Un lunghissimo addio, per riprendere il titolo, che in realtà è un desiderio di trattenere tutto. E tutti.

Alessandro Canzian

 
 
 
 
Se è una colpa non farcela
ad essere felici
ebbene condannatemi,
che siano tutte sere come questa
con la tosse in arrivo
e un cielo stanco
a chiudere le ore.
Se solo potessi aprire ali e
finestre, di aria nuova
colmare i polmoni
credete che sarei ancora qui
ad annegare piano,
in una melma spessa
nel dolore che sa di acqua e fango.
Neve scura cade dalle gronde
e tu non torni,
chissà quando rivedrò
il chiaro dei tuoi occhi,
intanto siamo terra e ombre
di un viaggio assurdo.
Spegnerei questo tremito
bagnandomi del Dio
che ancora cerco.
 
 
 
 
 
 
Ti ho visto scendere le scale
il marmo rosa scivoloso e freddo.
Alla vetrina la tua ombra
era bambina, lo sguardo
acceso dei giorni belli
poi d’improvviso ecco la sera
la tua poltrona vuota,
il passo non risuona.
Allora capire quanto tutto
si dilegui,
come sia bello stringerci forte
prima del niente,
prima della morte.
 
 
 
 
 
 
Agnese,
che sempre sei esistita
prima della notte prima della sera
che hai inventato la mia vita spenta
colorato gomitoli di lana calda
spinto sassi giù dalla parete.
Agnese
che ti rivedo dentro gli zigomi accesi
i tuoi occhi di cielo e di neve.
Agnese
poesia nuova da imparare
le mie mani sulle tue
albero cavo a contenere il sole.
 
 
 
 
 
 
Farsi piccolo
come un fiore ignoto
che muore sul ciglio
come un figlio mai nato.
Farsi piccolo per non morire
invano, capire perché
mentre pensi alla morte
sempre un verde t’assale
l’onda mossa dal vento d’un prato
celeste.