Nella cultura greca antica la nekyia è una pratica di evocazione delle anime di defunti finalizzata alla conoscenza del futuro (necromanzia), secondo una ritualità predeterminata. Tra le numerose testimonianze di tale prassi, storicamente ben attestata, ricordo qui la più antica, di natura letteraria, contenuta nell’XI libro dell’Odissea – chiamato, non a caso, Nekyia: una narrazione affascinante, ricca di spunti che andranno a nutrire l’immaginario, non priva di problematicità e contraddizioni.
La nekyia ha per protagonista Odisseo (Ulisse nel mondo latino), l’«uomo ricco di astuzie» (polýtropon), ingannatore all’occorrenza, entrato nella coscienza collettiva in quanto emblema dell’individuo assetato di conoscenza. Come è noto, Odisseo, per ingiunzione di Circe, dovrà raggiungere le dimore di Ade per interrogare l’indovino Tiresia sul suo futuro, in merito all’auspicato ritorno ad Itaca. L’eroe viaggiatore per eccellenza affronterà ora un viaggio diverso, in uno spazio oltremondano, ancora una volta spinto da necessità; è infatti Circe la vera artefice e regista della vicenda; è lei che, persuaso Odisseo a recarsi negli Inferi, gli fornisce indicazioni precise sul luogo e sulle modalità del rito. Così il re di Itaca giunge per mare nella terra dei Cimmeri, nebbiosa e oscura, del tutto priva di luce, ai confini dell’Oceano; qui hanno luogo le dimore di Ade e le selve di Persefone, e qui andrà officiata la nekyia, nel punto esatto in cui i fiumi Piriflegetonte e Cocito confluiscono nell’Acheronte. Seguendo le prescrizioni della maga, Odisseo scava una fossa di un cubito per ogni lato, versa per i defunti un’offerta di latte e miele, vino e acqua con farina bianca d’orzo (pratica necromantica, questa, che richiama quella ricostruita da Eschilo nei Persiani); quindi immola un montone e una pecora, entrambi neri, e promette che sacrificherà un ulteriore montone per Tiresia, nonché, una volta tornato in patria, una vacca sterile.
Durante lo sgozzamento degli animali, l’eroe dovrà voltare lo sguardo; dettaglio, questo che rinvia al legame innescatosi tra le potenze infere evocate e l’officiante, tanto che quest’ultimo dovrà necessariamente volgersi altrove se vuole fare ritorno nel mondo dei vivi. Alla prima comparsa delle anime dei morti, Odisseo e i suoi compagni scuoiano e bruciano le bestie sgozzate, rivolgendo preghiere ad Ade e Persefone. A questo punto avanza verso di loro una folla indistinta di spettri, che produce un rumore spaventoso, generando terrore nell’eroe. Impedendo loro di avvicinarsi per mezzo della spada, Odisseo fa in modo che non bevano il sangue delle vittime prima di Tiresia; qui si fa riferimento a una particolare forma di libagione, definita aimakouría, finalizzata a far ritrovare ai defunti la capacità di conoscere e ricordare. Dopo il breve incontro con il compagno Elpenore, morto da poco e rimasto insepolto, l’eroe interroga il veggente tebano, che risponde sommariamente alle sue domande sull’avvenire: dopo essere incorso in svariati ostacoli e dolori, troverà la strada del ritorno. In seguito Odisseo riconosce tra le ombre una lunga serie di personaggi a lui noti e dialoga con la madre Anticlea e con i compagni d’armi Agamennone e Achille, che chiedono notizie su di lui o sui loro cari ancora in vita.
La lettura di questo racconto ha suscitato negli studiosi qualche perplessità in merito all’effettiva necessità di Odisseo di evocare le anime dei morti per conoscere il proprio futuro; in altri termini, la nekyia risulta davvero utile all’eroe? Si è già accennato al fatto che Tiresia risponde piuttosto a grandi linee ai quesiti che gli vengono rivolti; ben più esaustive saranno le parole di Circe sulle vicissitudini che Odisseo dovrà affrontare per tornare a casa. Infatti, se il discorso dell’indovino cieco occupa 38 versi (Od. XI 100-137), quello della maga arriva ai 100 versi complessivi (Id. XII 37-110 e 116-141). Il grande studioso Rohde, nella sua famosa e sempre valida opera Psyche: culto delle anime e fede nell’immortalità presso i Greci, riflettendo sulle motivazioni dell’inserimento della nekyia nel testo omerico, afferma che il rito necromantico fornisce scarse indicazioni non soltanto sul futuro dell’eroe, ma anche sul mondo infero; il significato dell’episodio sarebbe individuabile, allora, nel recupero di una dimensione umana e familiare che prelude al ritorno. Ciò è ravvisabile dal colloquio tra Odisseo e i defunti con cui aveva intrattenuto stretti rapporti personali, in particolare la madre. Secondo Rohde, quindi, la pratica dell’invocazione è più funzionale al ristabilimento di un contatto con i trapassati che all’ottenimento di informazioni dettagliate da parte loro; tanto più che, come si è visto, in una sorta di inversione di ruoli, sono proprio le anime di Anticlea, Agamennone e Achille a chiedere informazioni all’eroe. Sorge qui un’ulteriore domanda: qual è il senso della citata libagione di sangue offerta di precedenza a Tiresia, se questi, per concessione di Persefone, aveva mantenuto le sue facoltà di veggente anche nell’Ade? Sembra ovvio, che così stando le cose, l’indovino non aveva bisogno di un rito volto al ripristino delle sue capacità di conoscenza. È probabile che il narratore abbia incluso l’aimakouría nella descrizione del rituale per rispetto di una consuetudine che ne prevedeva l’impiego in questo genere di pratiche; una sorta di topos cui si sceglie di conformarsi.
Nel complesso, la nekyia omerica resta un passo di notevole interesse, certamente di natura più che letteraria che storica, in quanto ci permette di ricostruire un quadro parziale, attendibile solo in parte, della necromanzia effettivamente praticata. L’autore del poema non è mosso da intenti documentari, ma attinge da un tempo mitico, in cui dietro a ogni evento si celano significati simbolici oltre che letterali. Non a caso, Carl Gustav Jung cita proprio la nekyia per alludere al viaggio negli orizzonti oscuri dell’inconscio, come esperienza di «introversione della mente cosciente negli strati più profondi della psiche incosciente». Per lo psicanalista svizzero, lo scopo di questa catabasi è «il ripristino dell’uomo intero». Ecco allora che l’evocazione dei morti nell’Odissea viene a rappresentare, nell’annuncio del ritorno dell’eroe a Itaca (il vero Sé), un esercizio di coraggioso avvicinamento alle proprie ombre, preludio di integrità.
Bibliografia generale
A. Cecon, Femminile e saperi illeciti: la necromanzia nel Mediterraneo antico, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di lettere e filosofia, Corso di laurea in Lettere Classiche (tesi di laurea), A.A. 2004/2005.
C. G. Jung, Il libro rosso, Bollati Boringhieri, Torino 2012
Omero, Odissea, trad. it. di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1963
E. Rohde, Psyche: culto delle anime e fede nell’immortalità presso i Greci, Laterza 2006