Bastano poche parole della breve nota di Fabio Pusterla, in coda al libro, a farci capire che quest’ultima raccolta di poesie di Cristiano Poletti, Un altro che ti scrive (Marcos y Marcos, 2024), sia inscindibile dalla precedente Temporali: perché questi «fenomeni naturali desiderati e minacciosi o orizzonti del pensiero legati al nostro essere smarriti lungo gli anni e i secoli eppure fissi nell’eternità di pochi istanti luminosi» tornano, in uguale potenza, se non addirittura intensificati, nei versi del nuovo libro; e parlo di versi indistintamente dal fatto che essi siano parte di una lirica o di una prosa, poiché queste ultime – e il lettore di Poletti sa bene ciò – sono prose liriche sul modello, azzardo, di Solmi o di Sereni.
Ma, tornando al titolo della precedente raccolta, il vocabolo non solo indica il fenomeno atmosferico in sé: si fa forza di tutta la sua valenza polisemica, covando pure e innestando nei testi il tempo, trascorso o da trascorrere, vissuto o immaginato, immettendo in un continuum che si fa racconto testi anche lontani tra loro, o sovrapponendo le voci, spesso plurali anche nei monologhi, poiché Poletti dà voce all’assente che è presente in lui suo padre, venuto a mancare da non molti anni, che assume spesso i connotati lirici di quell’altro cui il titolo della nuova raccolta rinvia («la forma del corpo avuto» si legge nella prima poesia della prima sezione, e in quella che immediatamente segue, e che contiene il verso che dà il titolo al libro, «Ricomincia il tuo pensiero / e il mio»).
Oltre a questo, a popolare l’universo altro possono intervenire autori citati direttamente o indirettamente, una figura amica, un passante, un luogo che in realtà è un rinvio diretto anche alla dimensione interiore del poeta stesso. Tutto sapientemente in punta di penna, immerso nel silenzio, con una delicatezza, una cura nella parola, una fede nella parola, che sempre più raramente incontriamo; perché «Ciò che è nascosto parla di noi. / Ciò che è sepolto parla con noi. // E noi / dotati di voce, viventi amanti, / non sappiamo bene, non possiamo dire / cosa succederà.», con tutto il peso che grava sull’individuo da millenni racchiuso in questo “non sappiamo bene, non possiamo dire” (molto diverso e distante dal «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» ormai d’un secolo fa).
Il tempo è uno specchio dell’individuo; o meglio, i tempi lo sono: perché non c’è un solo tempo, un unico che tempo in cui si svolge e si sviluppa la raccolta che è una sorta di doppio dell’esistenza. Poletti sa che il tempo è un’invenzione sfaccettata, parcellizzata, particolarizzata, non riconducibile ai soli passato presente e futuro. E il passato e il presente coesistono nella scrittura di un poeta che tutto sapientemente sospende e pone su uno stesso piano, come mostra solo il poemetto America che chiude la raccolta. Ma è in realtà l’intero libro a svolgere il filo di un’unica matassa, un lungo filo rosso tessuto da un lontano, anche nel tempo, stabilimento bergamasco, nel quale si lavorava la lana per integrare il poco offerto dalla terra, fino alla vastità del nuovo continente, quella ‘America’ che si identifica anche nell’alto canto del suo vate, Walt Whitmann, passando – e non è un passaggio di poco conto – attraverso la poesia di quegli americani che hanno ricercato le proprie radici nella vecchia Europa (Eliot su tutti).
E poi la luce! Come un’epifania luziana, luce e parola animano la continua ricerca poetica di Poletti che mai come in questa raccolta trova il suo punto più alto; e con alto intendo proprio riuscito: «A lungo ci siamo creduti / scomunicati dalla bocca. / […] e il lamento sembrava inestinguibile. / Ma uno spirito tiene a parlarci / ed è un fiume e il nostro nome naviga qui. / Coscienza, luce nascosta.» La parola si fa luce, e viceversa, in quelle manifestazioni incontrate in Galilea: le Sefirot («emanazione di luce primaria») che danno il titolo alla quinta sezione, ossia il momento del libro in cui la tensione spirituale, sempre attiva in Poletti, approda a un personale misticismo in cui, forse, trovano quiete le molte domande poste fin qui:
Nel grande nero è la prima luce.
Esiste, e non è nata.
Il pensiero insiste, non capisce
e va in polvere l’io
e il mondo da noi scolpito già brucia.
Oh prodigioso
nulla.
Ecco, l’umiliazione necessaria dell’io (di ogni io) per potersi avvicinare a una verità possibile, o quanto meno alla verità cercata. E che sia stata cercata, anche questo, è fatto noto a chi segue la poesia di Cristiano Poletti, da sempre costellata di tappe in luoghi profondamente segnati dalla spiritualità espressa dalle varie culture; cercando, probabilmente, la radice stessa della spiritualità intesa come esigenza individuale, prima ancora che manifestazione collettiva. Luogo dell’anima, prima ancora che tempio e quindi corpo:
Se è notte
è la fede.
Se è giorno
è conoscerti
e io ritorno al tuo torso
nudo e luminoso
che ha tolto me stesso dal mio io
quando la bellezza è arrivata
nel respiro di un palmo.
Perché, paradossalmente, per quanto costantemente esibito sia nell’intera raccolta, l’io è ciò che è più nascosto, rifiutato o negato, quando esso rischia l’identificazione immediata con l’autore: «Sembra avere un continuo bisogno / di nascondersi, Cristiano. / Come un pianto, / come la rugiada fa col verde.» E il silenzio, cui ho accennato più sopra, è perciò necessario («Sei diviso da chi sei. / Volevi seminarti, sfuggirti, e per intero / perdi ora dalla parte del silenzio.») per raggiungere finalmente la forma più “scabra ed essenziale” agli altri visibile del sé ora accettato («I colori, le carte, gli scalpelli, / quel che di sé ognuno può vedere.») e che racchiude tutte le forme di arte impiegate da Poletti (pittura e scultura, insieme alla scrittura) per consegnare la sua voce: «Lo sguardo adesso è perso nella vista. Pensa, al mondo vissuto, a cosa hai amato, con che parole. Adesso mancano, vedi, non si mostrano più. Tutto si scava nell’aria. Terrazzo, corrimano, aria. Silenzio, tu conosci un’ala grigia che si pronuncia in romancio. L’alta montagna ci ha insegnato la forza della storia e la forza dell’acqua. E tu rispondi un’ultima volta. Fin qui, fino a non essere, noi. // Sai, le scale. Sei salito ma non abbastanza. Avresti dovuto farlo e ancora dovresti. Non penserai di esserti speso a sufficienza… Le congelate scale, cercale. Il mancato ti appartiene, dice una delle tue voci. Sali. E non fingere.» (Quadro 2).
Fabio Michieli
Passaggio di un’amica
Provo nelle parole di un’amica
“il lutto della sete.”
Come può essere,
come passa nel breve
all’arido tutto e al sogno
dei versi erano invece acque
infinite e io senza me.
Per una locanda
I balenieri, la loro locanda
prima dei mari: c’è chi si domanda
del cupo di quel quadro nel vestibolo
e chi si raccomanda
a Dio. Io, Samuele,
emergo dal profondo della storia
per profezia e di un popolo o una vita
vi dirò.
È per destino che passo di qui:
passo portando il peso di una voce,
amando moltitudini sapendo
che quella voce non è mia.
Fuoco sulla pianura
di nuvola in nuvola passa il diavolo e tu dovevi
crescere dove nasce una sillaba e la parola
alba poi sparire una notte e nei giorni prima
ferire. Dio, quel rosso che vicino si tende
viene dal lampo e subito
è incendio