Tutto qui – Franco Marcoaldi

Tutto qui, Franco Marcoaldi (Einaudi 2017)

Alcuni giorni fa stavo leggendo un articolo che parlava del sistema extrasolare chiamato Trappist 1 e mi ha colpito una riflessione inerente la panspermia. In buona sostanza, e semplificando molto, la panspermia ipotizza che sia possibile lo spostamento di elementi fondamentali per la vita da un pianeta all’altro in maniera praticamente naturale. Sappiamo già che sulla terra troviamo pezzi di rocce provenienti dalla luna, alcuni da marte, come sappiamo che la vita nella sua costituzione più semplice (ad esempio batteri) può sopravvivere anche nello spazio. Questa ipotesi trovo abbia dello sconvolgente perché dichiara che in natura c’è una sorta di dialogo, di comunicazione nella forma di uno scambio di elementi. Sembra quasi che più che l’horror vacui la natura goda di un horror solitudinis. Anche a livelli astronomici. Eppure l’uomo, pur nelle sue distanze infinitesimali se rapportate a quelle fra i pianeti, soffre l’isolamento, la frattura con l’altro e con se stesso, la propria vita. Il proprio essere vivo.

Tutto qui di Franco Marcoaldi (Einaudi 2017) è un libro che parla puntualmente di questa frattura, non delegandola ma dichiarandola, testimoniandola: All’indomani ti alzerai di nuovo, / berrai un caffè e riprenderai / a piantare salvie – mentre / fuori continueranno / a sparare. E non a salve. È un libro che si interroga sul tempo e la sua necessità d’essere perso (Perdo il mio tempo se resto / qui, sdraiato sul mio letto, / nella speranza che un accento / di poesia mi risuoni nell’orecchio?), d’essere in qualche modo ritrovato (E dimmi, dimmi – tu, cosa ne pensi? / Un tempo, neppure poi troppo lontano, / ci intendevamo, accomunati / dalla lingua della medesima tribú), d’essere in qualche modo misurato per misurare il senso del proprio stare al mondo (Un tempo di notte cantavo / a voce alta per farmi coraggio – / abitudine persa da quando mi è chiaro / che sono qui di passaggio).

Il tempo consegna al poeta l’insensatezza della propria vita (Tempo perso, energie sprecate, / torti patiti, risentimento / accumulato – eppure, riavvolgendo / il nastro dei tuoi giorni, / ci sarebbe poco o nulla da cambiare: / quello che sei equivale grosso modo / a quello che saresti stato) che diventa però saggezza nella constatazione che deriva, ad esempio, da uno stare in una sala attesa (Nelle diverse sale d’attesa / della vita – ospedali, banche, / uffici della posta e comunali – / non troverete mai i potenti: / ché quelli, dall’attesa, sono esenti. / Gli umili invece attendono / in eterno: lo spossessato sa / che nulla è suo, meno che meno il tempo). Ed è in questo la critica, asprissima, che Marcoaldi muove non di rado senza mezzi termini da La storia si ripresenta / al suo solito modo: massacri, / attentati, stupri di massa, / attacchi all’arma bianca, fame, / sfollati, bombardamenti. / “E tutto, come sempre, / assolutamente per niente” a Il mondo va in rovina? Ebbene, / si risponde, mi accodo alla deriva. / Al diavolo la forma, la grazia, / la cura, l’armonia. / Mi arruolo volentieri nell’esercito / montante del rancore, dell’odio, della rabbia – / d’ora in avanti spargerò veleni / a destra e a manca, all’impazzata.

La solitudine dell’uomo, il suo isolamento, acquisisce in Marcoaldi un significato più penetrante e incarnito in quanto I matti vanno matti per le case / matte. All’apparenza vestono / i panni di uomini normali, però / non sono tali. […] E allora loro si rifugiano / dentro le matte casematte: / sprangano le porte, chiudono / le imposte – bevono a fiumi / vini inaciditi, maledicendo / tutti quanti: dai vicini al prete all’oste. / Lí germina il pericolo, ché vivere / isolati è un esercizio arduo –/ se non da santi, quantomeno da iniziati. L’inevitabile convivenza finisce per acuire lo strappo tra gli uomini in quanto si basa solo su un consumo condiviso di pornografia e perché Da sempre ci giriamo intorno / e il tema è sempre quello: / e veggio ’l meglio et al peggior m’appiglio.

L’amara constatazione della realtà permea la visione di Marcoaldi fino a includere anche quel mondo animale che teoricamente mantiene ancora, all’interno della sua crudeltà necessaria, un minimo di armonia: Attratto dal piccolo teatro m’avvicino / e, sorpresa, la rana è un topo salterino. / Venite, urlo, venite tutti quanti, / ma prima degli altri a vedere / quel prodigio arriva Nina, la cagna / solitaria, che sottrae la preda / al gatto e in un baleno / si mangia il topo-rana, / mettendo la parola fine / a questa controversa luminaria. Anche se resta la differenza, l’eccezionalità assurda dell’uomo: Forse l’animale non ride perché / non gli serve. Noi invece ridiamo perché / la realtà è eccessiva – e in che modo ripararsi, / privati come siamo di più barbariche riserve? Non ultimo viene coinvolto anche Dio: Dio è rincasato verso sera. / L’ho trovato affaticato, stanco. / Non aveva nessuna voglia di parlare. / Ha scosso la testa con le mani alzate / ed è andato a riposare.

Ciononostante Marcoaldi non è un poeta del buio ma della luce, dello sprazzo di luce possibile: Flettiti come il bambú di fronte / a una furiosa tramontana, evita / ogni sforzo come il pino – fermo – / in attesa di una luce che risana e ancora Nel gelo di gennaio sto / come serpe schiacciata / alla parete. Apro la bocca / e bevo goccia a goccia / pallide lacrime di sole. Dove la possibilità umana è delegata specificatamente al canto: Per te, solo per te canto, / e attendo (senza crederci) / che si compia proprio qui / il secondo avvento […] Me ne sto buono buono a guardare. / I fiori di campo piegati dal vento. / Il mento schiacciato del cane sul prato. / È passato un uccello, cantava beato.

Marcoaldi conclude il libro con alcune considerazioni (Forse la vita è più elementare / di quanto non si creda – come la lotta / che ogni giorno si conduce dentro / l’orto: cavare erbacce, debellare / parassiti, smuovere la terra / e innaffiare le piante in modo accorto) che pur rimarcando la critica all’uomo (Se nessuno più parlasse, se venisse / a mancare ogni segnale, / soltanto un semplice apparire / e disparire delle cose – / noi, gli uomini lupo / protesi solo a divorare, / saremmo costretti, muti, a rimirare) sembra ab absurdo suggerire una possibilità se non salvifica almeno ipoteticamente aperta. Perché se l’opera si chiude con Mentre nella nostra stanza di giochi / per adulti ce ne staremo concentrati / a stilare un volatile quanto inevitabile / bilancio, qualcuno salterà su dicendo: / tutto qui? siamo sicuri? nient’altro? / tutto qui? E noi risponderemo: / sissignori, è proprio tutto qui, al lettore accorto non sfuggirà la forza reiterata della domanda: tutto qui? siamo sicuri? nient’altro? / tutto qui?. Quasi a voler dire che ci sarà sempre qualcuno, nonostante tutto, che prima o poi salterà su e porrà la domanda. A prescindere dalla risposta.

Alessandro Canzian

 
 
 
 
Vivere nel terrore di commettere
un errore e poi scoprire
che i bosniaci, a Sarajevo,
marcano di proposito
pentole padelle e piatti
con una qualche imperfezione
quale segno di sottomissione
felice al Dio unico e perfetto.
 
Basta, ho deciso: anch’io farò
un errore di proposito,
per non sentirmi più, spero, in difetto.
 
 
 
 
Il mondo intorno si presenta
ostile, umiliante, macchinoso?
Acquàttati: prepara la mossa
del cavallo – resta supino e fermo
come in mezzo al mare,
steso a morto.
 
Lo consiglia anche l’oroscopo,
e stavolta non a torto.