In quest’opera composta e precisa, Tutto il resto è letteratura (Musicaos editore, 2024), Vittorino Curci indaga sull’oggi con la consapevolezza di uno sguardo assai maturo. «Tout le reste est litterature», scriveva Verlaine, alludendo con tono dispregiativo a tutto ciò che non è Poesia; Curci, invece, per Letteratura intende il tentativo che l’Uomo cerca di compiere per esistere.
In un altalenarsi quasi melanconico, la parola resta salda alla verità mentre l’autore perlustra scene e ricordi di un’infanzia quasi immortale.
«Eternizzare stanca e se non pensi ad altro / vieni tra queste righe che slegano il ricordo / qui c’è un teatro di anime morte». Curci apre con la descrizione di un cammino, che sta a significare i passi che giornalmente compiamo su questa Terra:
«ma tu che vedi?»
«io non vedo niente»
[…]
sì, ma ora che succede?»
«non lo so che succede. andiamo avanti e basta».
Passi ombrati e incerti che non lasciano nessun’altra possibilità, se non quella dell’ascolto.
Musica, parole e sentimento del sentire. Visibile è la formazione musicale dell’autore, che trasforma i versi in partiture leggiadre. Egli compone e separa il concreto dall’astratto, fino a renderlo omogeneo e più tangibile: «delle numerose vite che hai vissuto ce ne sono alcune forse
che sono durate pochi minuti// non è commovente?».
Mette in discussione le leggi dell’universo: il tempo, l’immaginazione, il senso.
Persino il dolore, che ci accomuna tutti, ma a salvare il poeta è «un libro con tutte le parole del mondo». Il cammino, dunque, potrebbe terminare con un accento sospeso, una virgola e mai un punto. Tutto – in queste pagine – viene espresso a chiare lettere, nella speranza di raggiungere quell’ormeggio e godersi la luce di un meritato crepuscolo.
Patrizia Baglione
gli sguardi dei viaggiatori e dei passanti
li attraversano – dimentico di sé, uno di loro
con sciami di farfalle nel petto, si lascia
sfuggire il suo segreto
ha imprigionato un lampo in una scatola di scarpe
i loro sguardi sono diversi – trattengono
il dolore di ogni immagine che muore
e mi viene una stretta alla gola se penso
all’inverno dei paesi, all’irreversibilità di ogni istante
e di me stesso, alle mostruosità
gli spaventi, i treni che ho perso
simulano vite anteriori, senza interruzioni
e colpi di scena, le diafane ombre della sera.
nulla da rimpiangere, è materia verbale
nel silenzio di un preavviso. cose e luoghi
ci riconoscono, le domande sono un rumore
e il mondo si impara ovunque.
un mio vecchio amico si affretta verso l’ultima
discesa, il suo zelo è un ordine provvisorio
un vuoto di memoria, un tempo che scade
dimenticare – dire
di avere dimenticato
il vociare dei passanti
la notte di san giovanni
quando tra un giorno e l’altro
si stende un oceano di acque lente