Tutte le ossa cantano la canzone d’amore – Pietro Russo

Carne e spirito: su questo binomio in dialogo o in contrapposizione in cui si sostanzia l’essere umano da sempre ci si interroga spesso per comprendere quale prevalga, come orientare la nostra attenzione, come concepire l’esistenza e il mondo esaltando l’una o l’altro e non raramente oscurando o tacitando il secondo. Su un versante di riflessione e meditazione su di essi, in direzione di una poesia “onesta” e matura, si posiziona Pietro Russo, redattore dell’osservatorio poetico Laboratori Poesia e già autore di sillogi di versi riconosciute in contesti nazionali, in quest’opera uscita con il marchio PeQuod suddivisa in sette sezioni e parzialmente apparsa di recente in riviste e blog. Tra una terracarne e un alito di trascendente e di infinito universo egli non sceglie bensì penetra nella realtà materiale riuscendo ad accogliere i plurimi spunti nascenti, la variegata nomenclatura del sottaciuto, di ciò che resta oltre la nostra immediata percezione. Questo perché “c’è qualcosa più del tuo vocabolario” in ognuno di noi: la parola non è sufficiente né può apparire sempre collimante con la mente, inadatta pertanto a dire o a sussumere prese di posizione.

Bisogna guardare dunque alle ossa, a quel coacervo di carnalità di cui siamo formati e che ci precede, nell’immenso flusso del cosmo, concepiti prima di ogni pensiero: quotidianamente evolviamo, ci modifichiamo a partire da quel grumo di luce e vita e a seconda dello spazio che condividiamo con l’altro. Ecco perché “ho un cuore di animale e uno da costruire / a partire da come mi guardi”, un viaggio inconoscibile che ci rende esseri sbrecciati e fragili, in balìa degli eventi, delle suggestioni, delle semplici coincidenze.

Ma è altresì un viaggio, quello che compiamo con costanza, che ci dice dell’appartenenza all’universo, figli delle stelle, luci accese nel magma indistinto del tempo (“siamo la puntata / contro il buio”), “malacarne” a sua volta in lotta contro il tedio e l’assedio dei giorni.

Nella silloge trova spazio il tema dell’amore, declinato nella sua accezione erotica e amicale, in un procedere talvolta frammentato tra il qui ed ora e il grande “contenitore” dell’universo che ci invita a riflettere sulla fragilità della condizione umana: si chiede all’altro/a “fammi cantare le stelle”, gioendo insieme di una nostalgia lontana che recupera alla memoria viaggi, suggestioni, immagini depositate, cristallizzate da qualche parte nel ricordo.

E la stessa lontananza equivale, nel poemetto “Disarmi” di vibrante, lancinante intensità, ad accorgersi che la poesia sta nell’ascolto, come afferma Paolo Di Paolo: e Russo ce ne dà comprovata vitalità, nella “città degli uomini” dove l’uomo è sconosciuto all’uomo e tutto è sempre tremendamente in bilico, tra genti che soffrono e si disperano, annegano nel sangue e negli oceani, e altre sorde al pianto e cieche di fronte alla mano tesa per chiedere aiuto e dove anche “i poeti non hanno molto da dire”.
Al passare delle generazioni non si dovrà più chiedere eternità poiché già saremo “altro nella terra o in un migrare di vento”, verso l’unica direzione possibile che è data a tutti, quella cantata dalle ossa: la canzone d’amore che perdura di universo in universo finché avremo occhi di bambino, virginali prove che segnano il tempo.

Federico Migliorati

 
 
 
 
al Signore del canto
l’Allah che sale dalla gola
quello che avevo da dare
me lo hanno portato via le onde
 
vengo dal mare
le tue labbra cariate
di alghe e sale
tutto ciò che hanno saputo dire
 
 
 
 
Stanotte tu eri tu
                 io l’estraneo
Adesso si volta, ho pensato
e le parole bruciavano
come in una chiesa sconsacrata
 
la tua schiena era attesa, era pazienza
io cosa ne sapevo?
 
Ci siamo svegliati così
uno per l’altro un enigma
 
 
 
 
Lo chiamo padre

C’è un uomo prima di tutto
e io lo chiamo padre
 
e non vedo la casa costruita
con gli occhi miopi della rinuncia
 
Io nella foto sono quello tra le braccia
ancora non lo so
ma quello che chiamiamo cadere
è il modo in cui una stella declina la propria luce
 
C’è un uomo all’inizio di questa luce
la montatura squadrata degli occhiali
che sembra un telescopio di precisione –
io l’ho chiamato padre, ed è un uomo
non un dio che blatera di assurde stelle
e dinastie tra la sabbia