Tu devi prendere il potere: il titolo della raccolta di Pietro Cardelli, edito da Interlinea (2023), è un imperativo. Di solito, parlando di poesia, si penserebbe di più ad un invito, un desiderio, ad una raccomandazione. Ma questo “tu devi” lo capiamo dalla sostanza complessiva di questo libro che unisce prosa e poesia. La prosa di Cardelli è però poetica, come il Dante Alighieri della Vita Nova. Si tratta del libro d’esordio di Pietro Cardelli, ma il periodo di scrittura per arrivare a questo risultato è lungo: dieci anni. Ogni sezione segnala le varie date, partendo dal 2013 fino al 2022. Un periodo lunga una vita, forse anche più di una. Questo si può intuire dal percorso psicologico dell’autore, che il lettore scruta pagina dopo pagina.
La prima sezione porta il titolo “Allestire una difesa”. Senza averne ancora letto il contenuto, ci appare subito come una fase caratterizzata dalla paura, dallo smarrimento, una fase appunto iniziale verso la maturazione. Partiamo dalla “Consolazione”, parola che ci porta ai primi frammenti in prosa. Qui troviamo un fortissimo movimento interno di pensieri, ragionamenti, vie di fuga e poi trappole mentali nelle quali chi parla si divincola. “Ti ascolti, ti lasci ascoltare, e capire o non capire sono solo parvenze, attimi, abitudini.”: entriamo in un’indagine al microscopio riguardante un “Io” e un “Tu”, insieme nella fatica della vita quotidiana.
“Ho perso del tempo ascoltandoti, credendo che fosse l’unica azione possibile. […] Accampiamo scuse e mai una lotta.”: da queste parole entriamo ancora meglio nel concetto di “consolazione” espresso dal titolo di questa sorta di capitolo. Segue “Prese di posizione e ripensamenti”, che in due frammenti diventa anch’esso un percorso di confessione, severo nelle parole usate. Il rapporto con l’altro appare frantumato, deteriorato, e forse proprio per questo Cardelli usa la parola nel titolo “ripensamenti”. Leggiamo “Ci vorrebbe coraggio: un gesto sicuro, l’urgenza di dire, un’affermazione studiata, mentre tutti si fermano per un attimo e ti ascoltano, fuori dal loro mondo, dentro al tuo […]. Sarebbe una vera soddisfazione allora, sentirsi compresi nell’attimo che valga una vita”. Il condizionale ha una funzione importantissima, e grazie proprio al suo utilizzo entriamo ancora di più nell’incertezza della situazione esistenziale qui descritta. Non è incerta soltanto la mente della persona, con sé anche il corpo che, infatti, così viene descritto: “Eppure ogni sera i soliti movimenti: anche tu sopra lo zerbino […] estrai la chiave, giri la serratura, apri chiudi, e infine ti fermi”. Il corpo qui descritto è impegnato in procedimenti meccanici, che immaginiamo quasi robotici, che non assumono più un’importanza legata al senso. Quasi non lasciano nemmeno spazio alla sorpresa, all’imprevisto.
Le prime due poesie le troviamo nel capitolo dal titolo “Rinunciando a qualsiasi diritto”: è serena, forse rassegnata, la parola del Poeta in questa indagine che appare come una netta conclusione. Scrive che “È difficile capire che non c’è ragione né torno nelle cose, / solo sviluppo, azione, avvenimento”: ci fa pensare che non sia da cercare il giusto o l’errore, perché le cose vanno esattamente come devono andare. Può esserci della serenità nel rendersene conto, certo, ma anche angoscia, desiderio di cambiare tutto. Continua: “Io, da parte mia, non ci trovo niente di sbagliato / ad essere noi stessi cose. / Così ho imparato a eliminare l’eccesso / e a sostituirlo con una nevrosi di autocontrollo”: ecco che troviamo, allora, questo contrasto emotivo. Prima l’illusione di poter “pensare ai sentimenti / come a file del computer” da poter incasellare, scegliere, buttare “senza che niente, intorno, ne risenta”. Ma l’essere umano non è una “cosa”, allora tutto questo viene riconosciuto come “nevrosi”, cioè qualcosa di malato, sbagliato, che non dovrebbe appartenerci ma che abbiamo costretto a forza nella nostra mente illudendoci di, così, vivere meglio.
Questa prima sezione si chiude con un titolo: “Non fare senza di noi la via giusta”. Un’altra importantissima indagine su di sé che, come le altre che percorrono il libro, è misteriosamente unica. La prima frase ci fa capire dove Cardelli intende portare il suo ragionamento suggerito dal titolo: “Quello a cui mi ero affezionato era un’immagine di me sovrapposta agli altri, era un io – x, anzi, un io + x = noi, dove x sono gli stilemi, i traguardi, le posizioni che uno pensa di sottrarre e che invece aggiunge, e si falsifica.” È l’ultima parola ad essere il vero simbolo di questo concetto che il Poeta ricerca: la falsificazione di sé causata dall’appropriamento di azioni, concetti, traguardi, studi, tutto ciò che facciamo per accontentare un altro diverso da noi. Così facendo, come spiegato dall’autore, non diventiamo “noi” e finiamo per perderci. Il titolo descrive proprio questo: quando “noi” ci distacchiamo dal nostro “io” e così cominciamo a percorrere una strada sbagliata e opposta all’autenticità.
La seconda sezione del libro si chiama “I padri e i figli”, con testi e poesie composti da Pietro Cardelli tra il 2015 e il 2016. Un titolo, “ἔκϕρασις”, apre un racconto pieno di visioni tra la malinconia e il dolore. Un figlio, dopo un incidente, nella propria immagine vede suo padre come riflesso. Certi dettagli sono importanti: i capelli lunghi e neri, il ricordo più doloroso.
Dopo avviene un passaggio, fondamentale nel racconto: forse il figlio arriva nella vecchia casa del padre, piena di ricordi ingombranti e polvere. “Alcuni oggetti sono rimasti sul tappeto; le foto spingono per uscire dal cassetto”, e segue una “perizia” così chiamata: questo termine professionale non è usato a caso, perché il racconto ha tutta l’aria di sembrare quasi un’indagine, l’indagine di un ragazzo che inizialmente non capisce cosa stia succedendo, e che forse vedendosi così simile al padre comincia ad indagare anche su sé stesso partendo dai ricordi.
Le poesie e i testi che seguono sono colmi di passione e fatica; la ricerca di comprensione e lo sforzo di comunicare si vedono nitidi ad ogni verso. Capire quando parla il padre e quando il figlio è difficile, perché ormai il dolore appartiene a tutti e due, e la coscienza della difficoltà di interagire è di entrambi. Dal primo testo è evidente chi sia a parlare: “Mio figlio appare e scompare. Non tollera il nulla che ho da dargli. Mi guarda, a volte”. L’atteggiamento della poesia successiva si fa più generico e universale: “Tornare a casa e farsi aprire la porta / si fa sempre più difficile // forse perché la mia solitudine / ricorda sempre più la tua / o forse perché ho abbandonato / per sempre il desiderio di capire”. Le righe che seguono ci parlano di un rapporto ormai a frantumi, difficile se non impossibile da recuperare. Forse soltanto la pietà per un uomo, per un padre che ormai su muove a fatica, che conta i passi che fa, si muove con fatica, solo questo potrebbe far risvegliare la tenerezza nell’anima di un figlio pieno di chissà quale rabbia. Un’altra soluzione, che Cardelli scrive nell’ultimo frammento, è quella di una sorta di rassegnazione razionale e serena. Dice che “Forse è il tuo modo di esistere che è così, che deve essere così, padre”. Lo sforzo di un figlio è sempre a metà tra la ricerca di comprensione volta ad una serenità esistenziale, e verso un’apatia che vuole solo non soffrire più.
Le sezioni che seguono, gli anni a venire di vita e scrittura, continuano la tensione presente in precedenza, scandagliando argomenti biografici e non sempre più vasti. La grande svolta comportamentale e sociologica di manifesta nella sezione omonima: “Tu devi prendere il potere”. Il soggetto qui è davvero protagonista, ha davvero il potere annunciato sin dall’inizio, e questo è già dimostrato dalla prima poesia: “Se in una piazza di una città grigia / gli uomini si gettano a capofitto / l’uno contro l’altro, con violenza, / non ti voltare, / raccogli i segnali nell’aria nera”. La contemporaneità ci insegna che, talvolta, è più facile voltarsi dall’altra parte di fronte alla violenza, se non addirittura unirsi per poi farne parte attivamente. “Raccogliere i segnali dell’aria nera” è una presa di posizione quasi giornalistica, cioè imparare dall’odio e saperlo riconoscere, difendere se stessi da tutto ciò, non divorarlo ma raccoglierlo.
La crescita emotiva di Cardelli dà serenità e speranza. Colpisce, in particolare, l’ultimo scritto che chiude la raccolta: “A te che leggi”, che temporalmente torna indietro al 2017. La scena è descritta in modo tale che tu, lettore, possa vedere esattamente i movimenti del protagonista, i cambiamenti estetici, della luce, possa vedere addirittura da sotto le coperte i movimenti del corpo cambiare. Proprio i movimenti del corpo del Poeta, delle sue gambe, delle braccia, ci parlano: da prima in posizione fetale, seguo un movimento allungato di rilassamento. Ci suggerisce un gesto di protezione di ciò che il poeta ha dentro, di cui cerca di prendersi cura non solo col gesto nel proprio corpo ma anche con la delicatezza con la quale spegne le luci a poco a poco. Ecco che, solo in questo modo, il soggetto può infine stendersi e lasciarsi riposare.
Caterina Golia
2.
Tornare a casa e farsi aprire la porta
si fa sempre più difficile
forse perché la mia solitudine
ricorda sempre più la tua
o forse perché ho abbandonato
per sempre il desiderio di capire.
Così ogni settimana, di sera quando arrivo, preferisco
non bussare. Apro la porta con le chiavi che mi hai dato,
mi muovo nell’ombra e riesco (quasi sempre) a raggiungere
camera mia con un saluto distratto. Qui posso godermi
questi cinque secondi che separano il silenzio dalla
parola, l’attimo prima del gesto. Raccontarsi è difficile
se siamo così uguali; ci sono troppe complicazioni. Ci
vuole mestiere a capirsi. A noi – ogni volta – non resta
che una paura: ritrovarsi nell’altro e non sapere più cosa
dire.
(da I padri e i figli – 2015-2016)
punirsi
Nella tua camera manca qualcosa
e se manca qualcosa la colpa è solo mia.
(da Tu devi prendere il potere – 2017)
2.
Le immagini vivono di una propria forza,
specie le più cartacee,
s’impongono e subentrano
ci stanno, ci sono, esistono ecco.
I file invece, la memoria rigida…
– il babbo che intaglia l’amianto e
ne respira tutta l’aria, fino in fondo –
mentre si creano forme nuove, intelligibili,
spessori calcolabili. Avessi le cicatrici almeno,
potessi decidere, tagliare, sezionare
– il male a posteriori che non puoi capire né controllare –
usare il cestino, come tutti, usare le mani.
(da The entire history of you – 2019)