Riportiamo con piacere la postfazione e alcuni testi tratti dalla nuova edizione di Trasparenza (Interlinea, 2018) rinnovata bel titolo Trasparenza – Poesia e Musica di Maria Borio (Interlinea, 2024, con note di Alessandro Carrera, Benedetta Saglietti e Stefano Bechini, e link ai brani musicali di Elio Cagnizi tratti dalle poesie – QUI).
Per Maria Borio, facente parte del Comitato scientifico della rivista “Laboratori critici” (diretta da Matteo Bianchi, QUI) ci siamo già occupati con la recensione di Alessandro Mariani sempre a Trasparenza (QUI), di Serena Mansueto a Prisma (Zacinto Edizioni, 2022, QUI), di Alessandro Canzian a Dal deserto rosso (Stampa 2009, I Quaderni, 2021, QUI) di cui anche Una domanda al poeta su Dal deserto rosso (QUI).
Infine abbiamo pubblicato il video della presentazione di Dal deserto rosso del 2021 a Milano assieme ad Alessandro Canzian, Giuseppe Pontiggia e Sebastiano Mondadori a cura di Maurizio Cucchi (QUI)..
La Redazione
Se esiste un sentimento della periferia, 1980 di Maria Borio lo incarna. L’Italia del Nord è, o si sta avviando, a essere una grande periferia. Rimane ancora una vaga idea di centro città, ma non appena lo si lascia la distinzione tra città e suburbia è quasi annullata. Nella poesia di Maria Borio questa periferia ha trovato un testimone. La musica riveste 1980 di un corpo sonoro lieve, come se osservasse i versi di Borio a qualche distanza, forse su una barca a remi, a pelo sull’acqua. Lievemente suoni e dita s’immergono ed emergono dall’acqua: in modo leggero, assolato, distaccato. Non sappiamo esattamente da dove chi scrive in poesia e chi in musica parlino. Anche se stanno osservando un mondo in cui è difficile sentirsi “a casa”, comunque non lo giudicano e non lo condannano. Il tubo catodico spezzato, in mezzo a un campo (pieno di altri rifiuti, supponiamo), è la perfetta immagine di una rottura anche epistemologica, di un’impossibile armonia tra paesaggio e abitanti. Se non fosse che quest’armonia si ricompone proprio nella sua perenne fragilità, nel suo mutare continuo, come la pelle di un serpente in un’infinita metamorfosi. «Allacciamo il tetto con il grano» è un verso significativo: indica la direzione verso un’utopia, futura o del tutto perduta. Per certo non lo sappiamo e né l’autrice né la musica lo rivelano.
Il rapporto fra l’immagine e il soggiornare su una terra letteralmente sbriciolata è pure al centro del brano Abitarsi (tratto dalla poesia Trovare): che, nondimeno, è più dell’abitare. Qui, le immagini prendono posto nell’aria, nel cielo, in uno spazio senza ulteriori definizioni, come un olio che si spande. È un abitare, certo, ma è solo quando si scopre la presenza di un “segno dentro” che diventa un “abitarsi”: dagli esseri umani alle cose, ai respiri, ai desideri, alle pulsazioni.
“Immagine” è la parola chiave in queste poesie di Maria Borio. In Amare liquido (brano tratto da Le forme che si allontanano dalla memoria…), anzi, le immagini vengono forzate a prendere una forma. Qui la musica si fa filigrana, arabesco, introspezione basata sull’essenzialità della chitarra acustica che, insieme a un vibrato degli archi, dà avvio alla canzone. Non c’è migliore esempio della zip, paragonata alla strada di una città, che passa attraverso molte epoche e molte archeologie. Poiché questo è “amore liquido”, la strada si fa fiume e il fiume si fa strada, in ogni senso: diventa una strada e trova una strada. Il fine che il brano vuole raggiungere è un rovesciamento lieve, discreto, come si rovescia un guanto, del dentro e del fuori. Il posto, qualunque esso sia, è “trasparente” nel brano omonimo. È un luogo interiore, proiettato però “intorno”. Qui, come altrove, In un sonno lunghissimo (brano tratto dalla poesia omonima), entrano in gioco nuove prospettive: mare aperto, luce, mattinate, finché il campo della visione, che fino a ora s’era tenuto per lo più in orizzontale (solo la zip ne modificava la vettorialità), ora si verticalizza. Da un lato verso il fondo del mare e dall’altro verso la cupola delle stelle.
I due brani in inglese, Aquatic Centre e Desert Red (da Dal deserto rosso), spostano ancora l’angolo dal quale l’occhio guarda. Forse perché quella lingua – in cui la stessa poetessa canta insieme al musicista – sembra promettere maggior concisione, o la possibilità di accumulare più significati nello stesso numero di sillabe, le forme si mescolano ancor di più e nei versi entrano allora oggetti, animali, termini che negli altri testi, probabilmente, non avrebbero potuto trovare posto. Nel sintagma «phenomenon of gaze» (fenomeno dello sguardo) è da cercare il significato ultimo di questa sequenza di poesie.
Si sviluppa, dunque, a partire dal caos della periferia, innalzato a caos dell’intera sfera dei quattro elementi, una nuova fenomenica dello sguardo. Non indica né un orizzonte né un punto di fuga. La sua vitalità è la confusione e, insieme, la sua mortalità. Il paesaggio è, allo stesso tempo, interiore ed esteriore, industriale e post industriale. La poesia contempla l’eterna precarietà della periferia: soprattutto è periferia dell’anima, senza che si percepisca odore di tubi di scappamento. Siamo immersi nel perenne ronzio di un’auto elettrica: dove passa, chiude la zip «che unisce la giacca al petto».
La musica riconduce gli otto testi alla loro potenziale verticalità. Ogni poesia, nel momento in cui è musicata, si fa un po’ bandiera di sé stessa, cominciando a parlare con un tono più elevato, anche se il musicista/cantante si guarda bene dall’alzar troppo la voce. Musicare in forma di canzone una poesia in verso libero, o quasi, senza l’aggancio preciso di rima e metrica, significa comunque in qualche modo forzarla, “squadrarla”, toglierle quella piccola anarchia del verso; eppure, questa piccola violenza regala alla poesia l’anarchia invisibile – perché ammantata da regole – e assai reale della musica. Dall’occorrenza dello sguardo si passa alla fenomenica del suono. Si tratta, in ogni caso, di “quel” suono, di “quegli” strumenti e “quella” voce, ben precisa. Il compositore ricava una performance, una e una sola, dalla molteplicità di voci che la poesia potrebbe ispirare. Altri musicherebbero gli stessi versi con risultati perfino opposti. In sintonia coi versi, pure la musica ha un sentore di periferia, di locali da ballo rimasti aperti dopo che tutti se ne sono andati, coi musicisti ciarlieri e rilassati. Adesso che non c’è più nessuno, possono finalmente suonare qualcosa a cui tengono davvero. Le regole, infine, si sfilacciano. Il verso, sotto il tallone della musica, torna a essere quello che era. Il suono si spande per le strade, quel tanto che basta, prima che qualcuno venga a dirci che è troppo tardi.
Alessandro Carrera
Benedetta Saglietti
[Tre poesie fra quelle musicate]
1980
La provincia si è riempita di case nuove.
C’è una felicità. Non eravate ancora nati.
Le case salde di coppie eternabili.
Pensavamo che si espandesse per gru altissime
e alberi trapiantati l’anello di catrame
che terminava nel campo e il campo sereno
come di fronte a uno spettacolo. Dici
non eravate ancora nati, ma esisteva una forma
su cantieri e famiglie: le radici che forzavano,
il catrame, le gru montate, i figli nati,
uno per uno un’automobile, la felicità
come pelle nutrita di un rettile.
Una primavera calda vi taglia adesso
fra le buste della spesa e i bulbi nel cellofan:
ci taglia dove dico guardate il campo con le rovine
delle immagini, il tubo catodico spezzato.
Nel suono fermo della televisione
le case indietro si sbriciolano nel video:
le tiriamo fuori, allacciamo il tetto con il grano.
Senza noi invecchiate come non fossimo nati –
miniatura finita, acqua ragia, ologrammi
dentro tutto il paesaggio.
Aquatic Centre
Stesa sul letto a volte vedi forme,
curve che entrano e spirali che evadono.
Gli organi trasparenti in alto si aprono
e diventano una linea morbida che insegue se stessa,
pulisce il respiro dai colori scuri – il colore del sangue,
o quello denso della carne dove nascono le api.
Nulla si rigenera, ma è prolungato, infinito
nella linea che pulisce gli oggetti e fa cose
per pensare, per abitare: un grande uovo, ad esempio,
si spacca senza perdere liquido e bianchissimo invade
gli angoli del soffitto, apre un arco, una porta
tra i continenti.
Tra il cielo e l’acqua questo edificio
splende in una luce illimitata:
puoi aprirlo, aprirti
a una lingua di toni aspri,
tornare nel suono rotondo di un’altra
riprendendo quei toni come finestre sul mare
o il ponte sospeso per il parco
dove le persone stese sull’erba sono api
e il calore al sole sembra impedire la morte
anche se tra anni, milioni, un giorno
esplodendo.
Segui poi altre linee, quelle della specie,
forse come sapere che nascere
non sarà più violenza, ma fenomeno di sguardo,
e dal letto lasci il sesso arrampicarsi
attorno ai contorni di questo edificio
nel suo bianco sotto raggi tempesta,
la stella nell’attimo prima
di esplodere.
La vita è ovunque, in una linea curva
ognuno abita come pensare.
Le api ora lasciamo la mia bocca perché le penso.
In un sonno lunghissimo…
In un sonno lunghissimo, mentre il silenzio intorno
alla zona rossa si allarga, ho sognato di essere un delfino
che risaliva il Rio delle Amazzoni, entrava in una vena
segreta e alla bocca del Tevere tornava, affondava, apriva
le onde nell’Hudson, nel Reno roteava. La sorgente
del Tamigi e la baia di Wellington erano affluenti,
di corso in corso la forza del mare si allenava,
il Fiume Giallo riscaldava la Neva, e su zattere di pino
i morti scomparivano, nudi, e sentivo freddo ma c’erano
le stelle, perché nello spazio bruciano ma non riscaldano,
e potevo toccarle senza morire. Ho sognato tanti corpi,
i codici, i caratteri, la logica del profitto ancora impressi
nelle rughe. Poi c’era una cosa più lontana, una scintilla,
un volto, un sogno lucido: il cambiamento? Il delfino salta
molto più del perimetro di una zattera, ogni secondo.