Tentare il nostro giro di luce – Stefania Onidi

Tentare il nostro giro di luce – Stefania Onidi

© Foto di Angelica Sticca

 
 
 
 
Clean
 
Poi si lava le mani nel lavello dello studio.
Aspetti sul lettino
di ferro e non ti rivesti
perché guardi il rubinetto il camice e il gettito
moderato dell’acqua contro il bianco
della stanza
prima delle parole. E non vuoi parole.
 
Da piccoli quando si ama la neve non si pensa al
freddo
si educa a questo sguardo puro
sul niente.
 
 
 
 
 
 
Almeno si potesse non pensarci
sottoporsi ad anestesie pesanti
non soccombere nel frattempo.
Nel sonno nascondersi
tenere lo scenario brillante
tentare il nostro giro di luce.
 
 
 
 
 
 
Le déjeuner sur l’herbe
 
È nuda a fianco ai due.
Senna fame ginocchia.
– Pensava alla venere di Dresda
a quelle dita poggiate sul sesso
scoperto. Ha disonorato il modulo classico
sbagliato il chiaroscuro e la prospettiva.
 
È carne soda non vede
ma sa di quel braccio
allungato verso di lei
potrebbe trovarselo in mezzo alle gambe
come una chiave che gira.
Potrebbe sudare perdere quella smorfia severa
smettere di guardarmi.
 
 
(Stefania Onidi, Archivio del bianco, Terra d’ulivi edizioni, 2020)
 
 
 
 

La parola di Onidi non solo è espressione di una necessità comunicativa intercorrente tra occasione come fattualità del reale, ed ispirazione che si produce in poesia; ma, e soprattutto, il dettato di Archivio del bianco si consegna nello sforzo in cui la poeta sembra esaurire nella parola l’esperienza sensibile della vita.

Per questo, icto oculi, dal complesso delle poesie non è evitabile non rintracciare un elemento carnoso indovato nei componimenti; o meglio, dall’opera stessa emerge una parola che è foriera di una fisicità visibile, di una corporalità materica che è tutta contrita nello sforzo di donarsi.

Ed è così, dunque, che nel materializzarsi della realtà nella versificazione potremmo riflettere attorno al fatto che la nostra sappia preferire la poesia come il linguaggio più consono all’intimità, a quella confidenza nascosta nelle pagine, per condurre il lettore nelle parti più profonde dell’autrice medesima.

Il primo testo contempla una visita ospedaliera e squadra tragicamente gli elementi che la compongono nel suo essere gelido, seppur sterile, il che conferma l’intuizione nei meriti della genesi artistica del pensiero poetico: questo è una via per l’abbandono, un consegnarsi ad un silenzio che si qualifica sia preordinato alla tessitura degli elementi materiali esperibili.

Il bianco, alla luce dell’attività pittorica di Onidi, è da intendersi come “colore acromatico”, quindi come assoluto da cui derivare per analogia una serie di nozioni che imperniano una struttura filosofica che sembra ammiccare ad una sorta di concetto polisemantico per cui siano comprese tutte le qualità noumeniche di quel che sia “prima” rispetto a ciò che sia obbiettivamente “dopo”.

Perciò, se il bianco come concetto è astratto e perfetto rispetto ad ogni altra verità successiva, l’avvicendarsi materico della realtà si manifesta nella totale imperfezione del momento in cui questa venga ritratta, divenendo quindi coacervo di fragilità e cedevolezze, e trova giustificazione in sé stesso – non potendo assumerne ragione più alta.

Il che trova conferma nella natura strettamente gnomica e rigorosa della chiosa del componimento, quando “Da piccoli quando si ama la neve non si pensa al freddo / si educa a questo sguardo puro / sul niente.” – e la parola sopravvive sul foglio, nonostante la negazione volontaria della stessa che squadra dal verso “non vuoi parole” sia nella dimensione di ascolto che di dialogo.

Il secondo elaborato, invece, mantiene una linea di riflessione centripeta per cui, dall’insieme delle circostanze esterne, la versificazione si instaura come nucleo indiscutibilmente personale dell’autrice; in questo, la pratica poetica – più nuda e più sofferente – procede di pari passo con il gradiente di verità che il verso è in grado di conservare.

In effetti, seguendo questa sensazione, è la poesia il luogo di predilezione per il pensiero proprio-centrico della coscienza; e questo trova conferma nei termini essenziali della scrittura, che – nel suo essere brevilinea e sintetica – presenta una dimensione in cui l’originarietà autentica del “bianco”, e l’inautenticità del fondamento dell’essere, convivono e si contaminano – affondando l’una nell’altra, sovrapponendosi.

Il terzo componimento, quello conclusivo, più consegna la natura “stratificata” della versificazione, slargando tanto sulla matrice strettamente carnale della vita (e quindi della poesia), quanto sulla imposizione pittorica dell’arte come materia-su-materia.

Ma non è ecfrastica la poesia, né ossequiosa dei canoni da questa introdotti nei secoli; basti denotare come già solo l’introduzione di una serie di ipotesi che rasentano la compagine delle res humanae – o meglio, semplicemente iniettando l’attività umana nel soggetto dipinto – tutta la narrazione ricade su elementi soggettivi che non possono che tradire il conglomerato di significazioni che l’osservatore deve far emergere dalla propria ricerca, della propria psyché.

Il corpo in Onidi costringe il soggetto al mondo, e ne permette la conoscenza esponendolo contestualmente ad ogni sorta di vulnerabilità in quanto essente concreto in cui confliggono le argomentazioni a dominio della realtà. Così, tanto nella poesia che nella pittura, aggallano differenze e lacerazioni, segni dell’estraneità dalla perfezione e presagi di tensioni erotiche, di cui l’arte è l’unico veicolo.

 

Carlo Ragliani