Sull’improvviso – Alfredo Rienzi

Ci sono immagini che un libro richiama subito alla mente, associazioni di frasi come legami chimici, considerazioni intorno alla poesia, ai modi di leggerla, di sentirla: «Per mia esperienza la poesia ti parla a prima vista o mai più. Un lampo rivelatore e un lampo in risposta. Come il fulmine. Come l’innamoramento», scrive J.M. Coetzee. È quello che vorremmo accadesse ogni volta che ci accostiamo a un libro di poesia, perché la parola scritta non sia vacuità né vaniloquio, ed è quello che accade con la poesia di Alfredo Rienzi e il suo libro Sull’improvviso (edito da Arcipelago itaca nel 2021 quale opera vincitrice della XIX edizione del premio InediTO – Colline di Torino). Il prefatore Maurizio Cucchi parla di «sottile varietà di forme in cui il suo pensiero trova corpo per esprimere quello che intuisce». L’intuizione è di per sé fulminea e illuminante. L’immagine del lampo si mostra quindi doppiamente adeguata e pertinente, se la troviamo anche nel titolo della prima delle due sezioni in cui è suddivisa l’opera, La comprensione del lampo. Titolo che è una dichiarazione d’intenti, peraltro già esplicitata dall’autore nella nota introduttiva.

C’è un intero mondo da esplorare e interrogare, un universo di minime creature e distanze siderali da osservare confidando negli strumenti della percezione visiva, ma anche e soprattutto lasciandosi guidare dal pensiero intuitivo. Il fuoco centrale è il mutamento cui è sottoposto tutto l’esistente, l’organico e l’inorganico, e insieme l’inevitabile destino di dissoluzione, indagato nei tempi del suo manifestarsi, ora progressivi ora repentini.

In questa sezione è soprattutto la fine imprevista a occupare la scena. Ecco l’improvviso che irrompe nella regolarità del quotidiano, spezza la successione prevedibile degli eventi, stravolge l’ordine delle cose e la vita stessa: «Ele, il primogenito, ha il suo destino / sul ramo più alto della magnolia // entrerà dall’occipite / il fulmine. È mezz’agosto, il cielo / terso aveva taciuto». Un fenomeno naturale diventa accadimento fatale, lo schianto della fine è senza preavviso, non un segno di turbamento nella natura circostante. Non basta porsi in ascolto, scrutare «ogni segno ogni indizio / infinite combinazioni», interrogare «i minimi interstizi», se la vita si dà «per frammenti, per scie» e non si può trattenerla.

Si vive nella perenne incertezza della rotta da seguire, il pensiero è diviso tra la fiducia nella conoscenza e nella capacità di controllare gli eventi e una sorta di resa al corso tracciato dalle leggi che governano l’universo. L’interrogativo sulla libertà delle nostre azioni è quello che assilla da sempre l’essere umano, e non promette soluzioni: «troveremo accordo, prima che il viaggio / finisca sugli scogli? »; «c’è stato tempo per disporsi, dici / verso il giusto angolo d’occidente // è che il tempo non è mai quello giusto / e le partenze hanno il suono ottuso / della frana che coglie all’improvviso».

Il culmine d’intensità lirico-meditativa si tocca in un trittico di poesie per il commiato, in cui il soggetto sembra ritrarsi per dare voce a chi ha oltrepassato la soglia. I motivi sono anche qui lo sgretolarsi della materia e l’estinguersi del soffio vitale, la brevità del tempo concesso a ogni essere vivente, la continuità indefettibile del ciclo di vita e morte. Ciascuno dei tre testi è mosso da una sapiente variabilità di ritmo e inquadrature e dall’alternarsi di frasi dirette e incisi, ma al di sotto di una conduzione lucida e rigorosa traspare un respiro franto, un singhiozzo infrenabile, come dinanzi a un dolore che sovrasta la ragione («Non so come fluisca il tempo / se esista / là dove tu ora sei / se sei // qui i merli nel giardino / dei tuoi ultimi passi / rinnovano i canti, / le infinite varianze / il loro, anche il loro / tempo breve»).

La seconda sezione del libro porta il titolo Di sesta e di settima grandezza, con cui si rimanda alla capacità dell’occhio umano di osservare le stelle fino a una data distanza, oltre la quale la materia esistente rimane nascosta, impercepita, impossibile da cogliere con le sole facoltà razionali («è lì la linea che flette il visibile / al nascosto»). Per definire il confine tra il visibile e l’invisibile il poeta ricorre alla terminologia tecnica, come a volersi ancorare alla certezza del metodo scientifico. È uno degli elementi connotativi dello stile di Rienzi: il suo linguaggio poetico, cólto e composito, acquista ulteriore significanza spaziando nel campo semantico della fisica, dell’astronomia, della geologia, della medicina, della biologia, della botanica, dell’ornitologia.

In molti testi la funzione della vista ha un ruolo cruciale e una valenza non solo fisica, ma anche e soprattutto simbolica, il dire poetico è sempre orientato alla riflessione metafisica, come in Attesa degli invisibili: «ma io ho dell’autunno la pazienza / e aspetterò il ramo denudato, / del raggio la pendenza esatta // sarà improvviso all’occhio / l’apparire, e breve». Ecco il distillato dell’idea alla base del libro: se c’è un senso nelle cose (o qualcosa che somigli a un senso) può essere appena intravisto, colto per barlumi o frammenti, e solo per la brevità di un istante. Lo spazio che ci è dato occupare nell’economia dell’universo è infinitamente piccolo, angusto come una cella, dalla quale tuttavia assistiamo, increduli e stupefatti, ai cicli portentosi della natura: «Sì, dovette ammetterlo, / si era affezionato alla sua cella // Nell’ossessivo ritorno di sere / e notti, quasi non pensava più / non comprendeva più / la libertà».

Alla poesia, al suo segnale sonoro, Rienzi chiede l’intuizione che superi i limiti del conoscibile, tuttavia è nel silenzio che torna «ogni voce ogni suono / possibile» e «poi l’infinita serie delle favole / quei loro finali mai ascoltati».

Daniela Pericone

 
 
 
 
È così che si spezza la stagione
al fragore del ramo
 
lo scricchiolio d’alburno
l’aveva preannunciato
 
sembrano vite precedenti
fruscii di foglie e palpebre:
 
spogliano a ogni sussulto
l’intonaco del giorno e il silenzio
 
Nulla sarà come prima, sentenzi
e senza scomodare Eraclito né Bergson
 
mi pare un’ovvietà
ma la memoria torce
 
il ricordo, convoca un oblio
d’osso e di terracotta.
 
Certe questioni – e sai di cosa parlo –
non hanno soluzione razionale.
 
 
 
 
 
 
Questa luce che ora
torna a crescere
dove la deporremo
spenti gli occhi in una notte a dicembre?
 
c’è stato tempo per disporsi, dici
verso il giusto angolo d’occidente
 
è che il tempo non è mai quello giusto
e le partenze hanno il suono ottuso
della frana che coglie all’improvviso
 
 
 
 
 
 
Terzo tempo per il commiato
 
Ma io non sono partita all’improvviso
e quando ho cercato di dirti muoio
la parola era fango
e quando ho pensato muoio, non andare via
il pensiero non ha avuto forza d’essere voce
così ti sei allontanato,
                            nell’ora
e quando tu, tornando, hai sussurrato al freddo
che nell’orecchio mi assaliva
              non avere paura
              ora puoi di nuovo camminare
              e forse volare
l’albero di ciliegio stava fiorendo, perché era dicembre
e là dove mi stavo incamminando
anche a dicembre fioriscono i ciliegi
 
 
 
 
 
 
Un respiro improvviso spostò i rami
alti, l’imbroglio astuto delle foglie
 
qualcosa s’intravide, nel ritaglio cobalto:
 
uno sfarfallio. O una scheggia,
l’ala boschiva dell’astore o solo
               semplicemente             un raggio di sole
 
Semplicemente? mi irridesti, incredula
 
Il vento era cessato, il cielo già richiuso
 
 
 
 
 
 
Attesa degli invisibili
 
Siete la mia ossessione
cinguettii, trilli, fischi
alfabeti brevi e indimostrati
voci che non vestite corpo
 
né ala nell’estate tra il fogliame
ma io ho dell’autunno la pazienza
e aspetterò il ramo denudato,
del raggio la pendenza esatta
 
sarà improvviso all’occhio
l’apparire, e breve.
 
 
 
 
 
 
Aveva l’occhio il compito suo certo
 
(socchiuso, semiaperto o spalancato):
 
l’esaminare nudo stelle
 
di sesta e di settima grandezza
 
è lì la linea che flette il visibile
 
al nascosto, e al nero
 
la ritrosia dei fuochi
 
 
 
 
 
 
Minima confessione gnostica
 
Dovette poi ammetterlo: un po’
(e qualche volta forse anche molto)
si era affezionato alla sua cella
uno spazio certamente angusto
nemmeno due metri di superficie
gelo e calura, ossigeno raro
eppure lì accadevano prodigi
e si vedeva il mare, come nella canzone
che sognava libera di andare via,
e non solo: anche il cielo e d’estate
dopo le piogge l’iride
nascere dalla sua piccola finestra
e si scorgevano i vulcani al centro
della terra, e i pollini depositare fiori
 
Sì, dovette ammetterlo,
si era affezionato alla sua cella
 
Nell’ossessivo ritorno di sere
e notti, quasi non pensava più
non comprendeva più
la libertà