Sulla poesia – Giorgio Caproni


Sulla poesia, Giorgio Caproni (Italo Svevo Edizioni, 2023, a cura di Roberto Mosena).

Se il lettore curioso, lo scrittore o lo studioso di oggi possono tenere in mano questo inimitabile ed essenziale gioiello di parole intitolato Sulla poesia — incastonato tra le pagine delle edizioni Italo Svevo che la casa, per nostra estrema grazia, ha deciso di ristampare a luglio scorso (la prima edizione risale al 2016) —, è grazie all’eccentricità di un uomo dal nome di Pietro Tordi. Tordi è stato un attore di origini fiorentine che il 16 febbraio 1982, a Roma, presa da tempo l’abitudine di uscire di casa con un registratore portatile, segue e imprime su nastro una conferenza sulla poesia tenuta da Giorgio Caproni al Teatro Flaiano. L’incontro è introdotto da Maria Luisa Spaziani e fa parte di una serie di interventi tenuti a Roma agli inizi degli anni Ottanta dal Movimento Poesia, cui il poeta livornese aderisce.

«Io non sono un critico, ma un semplice recensore»1. Comincia così l’esposizione di Caproni circa alcune sue «idee generali sulla poesia»2, dopo aver letto un testo tratto dalla raccolta Il muro della terra (1975) cui affianca un commento modesto quanto illuminante sulla natura dell’esperienza poetica, non solo in rapporto all’intimità dello scrittore bensì alla società cui appartiene. Caproni non pretende di circoscrivere il senso di quest’arte artigiana, lo annuncia chiaramente, si limita, come un minatore dirà, a scavare nelle caverne del suo animo munito del solo casco protettivo con luce tipico di quell’esploratore del buio, che è la sua penna. Da questo lavorio nel fondo il poeta spera di «attingere quei nodi di luce che sotto gli strati superficiali, diversissimi tra individuo e individuo, sono comuni a tutti, anche se pochi ne hanno coscienza»3. Un fine che la nostra società consumistica e di massa reputerebbe inutile, e anche lo stesso Caproni, allora, lo riteneva un compito anacronistico, ma non nel senso di un’opera (una ‘vocazione’ la chiama il poeta) in controtendenza con i tempi che viveva, bensì di un’impresa che vuole «cogliere e confermare nel tumultuoso e mutevolissimo flusso dell’immediata attualità ciò che nell’uomo è stabile, perenne, eterno»4. Solo in tal senso la funzione della poesia si fa sociale, si apre alla pluralità grazie al sacrificio del poeta che non si è chiuso nel suo «puro narcisismo»5.

Per Caproni il poeta è, quindi, l’Io che ha scavato così a fondo dentro di sé da giungere a rivelare una verità valida per tutti e che in tutti sonnecchia «in attesa di essere svegliata»6. Il regista sovietico Andrej Tarkovskij si è espresso similmente a quando detto dallo scrittore livornese, paragonando la sua attività artistica a quella di uno ‘scultore del tempo’, un allora moderno Michelangelo o Canova che scolpiva su pellicola le sue inquietudini, le tensioni ascetiche, i dubbi, modellando quella materia dinamica che chiamiamo, appunto, tempo.

Se nel più fondo Io c’è allora un Noi che aspetta di essere svelato, «non la lampadina elettrica» ma «il lampo che è di tutti i tempi»7, questo lo porta in superficie il poeta — Caproni si definisce non solo un minatore ma un vasaio, un umile artigiano. Ma in tutto questo, qual è il valore specifico che la musica, in poesia, ha per il livornese?

La differenza fondamentale che Caproni intuisce fra il linguaggio della normale comunicazione quotidiana e il linguaggio poetico sta nella percezione di quel che lui chiama «significato musicale»8, ovvero un quid di senso capace di generare emozioni o di tradursi in sentimenti e idee. Una riflessione estetica partita da lontano, quando già Dante nel Convivio parlava dell’impossibilità della traduzione di un poeta da una lingua all’altra perché verrebbe meno il “legame musaico” che sostiene l’andamento di un testo. Una percezione di quel ‘significato musicale’ è, oggi, ancor prima dell’atto dello scrivere, poco viva nel panorama poetico italiano, al lirismo ad essa congenito si predilige una prosa spezzata priva di ritmo, quasi fosse venuto a mancare un pensiero sull’animo umano. Infatti, la musica in un testo poetico non è mera necessità estetica, un abbellimento duro a tradirsi o un ghirigoro voluttuoso, ma un’intima esigenza della nostra coscienza. È su questo che Yves Bonnefoy fonda una sua riflessione quando dice che la fusione di suono e senso in poesia «ha a che fare con la coscienza immediata»9. L’intuizione poetica, per il francese, è sonora, germina dal rumore per svilupparsi nel linguaggio. Ed è lì che il poeta la concentra.

Così è in Caproni, se leggiamo attentamente il testo riportato di seguito:

Amore mio, nei vapori d’un bar
all’alba, amore mio che inverno
lungo e che brivido attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo, e sa
di rifresco anche l’occhio, ora nell’ermo
rumore oltre la brina io quale tram
odo, che apre e richiude in eterno
le deserte sue porte?… Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitìo tra i denti, è forse
di tali ruote un’eco. Ma tu, amore,
non dirmi, ora che in vece tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte
qui, col tuo passo, già attendo al morte.10

L’effetto è evidente: il sonetto è un breve spartito significante, una musica in versi dove non solo la rima (assolutamente non necessaria per il poeta toscano, ma essenziale, quando è presente, come «colonne che sorreggono un arco»11) ma l’intera architettura della poesia custodisce in una forma metrica il fremito dell’attesa amorosa, la paura e tutte le impercettibili vibrazioni emotive che lo scrittore ha avvertito dentro di sé e riportato nel linguaggio, il cui esito finale consuona nella speranza di allontanare la morte, il senso di abbandono. Quindi la musica, la rima, «non è un ornamento» perché «due idee possono consuonare e dissonare» generando «una terza idea»12. La musica è il trampolino più alto per un tuffo più a fondo nella nostra coscienza. Questa è l’idea, l’intuizione, il pensiero che Caproni — e Bonnefoy — ci trasmette.

La poesia non va allora solo capita ma sentita, ascoltata e percepita mediante i sensi permettendo al suo brivido (la cui etimologia secondo il Devoto-Oli viene dal termine lombardo breva, attraverso il verbo brevà/brivà che vuol dire ‘soffiare/spirare’) di attraversarci. Un vento è dunque la sua musica, che passa simile a una colata di calce d’oro e tiene unito il grande mosaico della nostra anima per aprirci all’essere che siamo, che diventiamo, all’incontro del nostro spirito con la realtà.

Fabio Barone

 
 
 
Per lei13
 
Per lei voglio rime chiare,
usuali: in -are.
Rime magari vietate,
ma aperte: ventilate.
Rime coi suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte delle sue collanine.
Rime che a distanza
(Annina era così schietta)
conservino l’eleganza
povera, ma altrettanto netta.
Rime che non siano labili,
anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari.
 
 
 
 
 
 
Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia14
 
Chi sia stato il primo, non
è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo.
Poi, uno dopo l’altro, tutti
han preso la stessa via.
 
     Ora non c’è più nessuno.
 
                      La mia
casa è la sola
abitata.
 
          Son vecchio.
Che cosa mi trattengo a fare,
quassù, dove tra breve forse
nemmeno ci sarò più io
a farmi compagnia?
 
     Meglio – lo so – è ch’io vada.
Eppure, non mi risolvo. Resto.
Mi lega l’erba. Il bosco.
Il fiume. Anche se il fiume è appena
un rumore ed un fresco
dietro le foglie.
 
            La sera
siedo su questo sasso, e aspetto.
Aspetto non so che cosa, ma aspetto.
Il sonno. La morte, direi, se anch’essa
– da un pezzo – già non se ne fosse andata
da questi luoghi.
 
             Aspetto
e ascolto.
 
        (L’acqua,
da quanti milioni di anni, l’acqua,
ha questo suo stesso suono
sulle pietre?)
 
          Mi sento
perso nel tempo.
 
            Fuori
del tempo, forse.
 
             Ma sono
con me stesso. Non voglio
lasciar me stesso – uscire
da me stesso come,
la notte, dal sotterraneo
il grillotalpa in cerca
d’altro buio.
 
            Il trifoglio
della città è troppo
fitto. Io son già cieco.
Ma qui vedo. Parlo.
Qui dialogo. Io
qui mi rispondo e ho il mio
interlocutore. Non voglio
murarlo nel silenzio sordo
d’un frastuono senz’ombra
d’anima. Di parole
senza più anima.
 
               Certo
(è il vento degli anni ch’entra
nella mente e ne turba
le foglie) a volte
il cuore mi balza in gola se penso
a quant’ho perso. A tutta
la gaia consorteria
di ieri. Gli abbracci. Gli schiaffi.
Alle matte risate,
la sera, all’osteria
dietro le donne. Alte
da spaccar le vetrate.
 
     Ma non m’arrendo. Ancora
Non ho perso me stesso.
Non sono, con me stesso,
ancora solo.
 
             E solo
quando sarò così solo
da non aver più nemmeno
me stesso per compagnia,
allora prenderò anch’io la mia
decisione.
 
            Staccherò
dal muro la lanterna
un’alba, e dirò addio
al vuoto.
 
           A passo a passo
scenderò nel vallone.
 
     Ma anche allora, in nome
di che, e dove
troverò un senso (che altri,
pare, non ha trovato),
lasciato questo mio sasso?
 
 
 
 

1     GIORGIO CAPRONI, Sulla poesia, Italo Svevo Edizioni, Trieste-Roma 2023, p. 21

2   Ibidem

3    Ivi, p. 27

4    Ivi, p. 28

5    Ivi, p. 27

6    Ibidem

7     GIORGIO CAPRONI, Sulla poesia, Italo Svevo Edizioni, Trieste-Roma 2023, p. 29

8   Ivi, p. 25

9    YVES BONNEFOY, L’alleanza tra la poesia e la musica, Rosellina Archinto Editore, Milano 2010, p. 15

10    “Il passaggio d’Enea (1943-1955)”, in Giorgio Caproni. Tutte le poesie, Garzanti Editore, Milano 2016, p. 117

11    GIORGIO CAPRONI, Sulla poesia, Italo Svevo Edizioni, Trieste-Roma 2023, p. 35

12    Ibidem

13   “Il seme del piangere” (1959), in Giorgio Caproni. Tutte le poesie, Garzanti Editore, Milano 2016, p. 211

14    “Il muro della terra” (1975), in Giorgio Caproni. Tutte le poesie, Garzanti Editore, Milano 2016, pp. 368-371