Sul letto del fiume ho labbra serrate che tremano – Rossella Renzi

Rossella Renzi 1

foto di Daniele Ferroni

 

 

Sono i giorni dell’acqua
che prende l’odore delle cose
le fa più luminose
annulla le distanze del mattino.
Oltre l’argine il fiume
scandisce la sequenza dei mesi
sulle tue mani, dentro i miei seni
si distilla un liquore amaro
per le genti che verranno
e per te, fiore raro dell’innocenza.
Vedi, l’acqua disperde i colori
e ci accarezza ancora una volta
nelle tempie batte l’urlo marino.

 

 

 

 

Non posso resistere all’acqua
alla sua spinta essenziale
sdraiata sul letto del fiume
ho labbra serrate che tremano
al suono del mondo intorno, mentre mi chiedi
cosa vuol dire morire. Vuol dire
sciogliere le corde che trattengono il corpo
stendere gli arti fino a toccarti
nel centro del tempo. Finire.

 

 

 

 

Ancora una volta muoio nel mare.
Un bambino raccoglie con premura
ciò che resta di me sulla riva.
Con le mie ossa nere
costruisce castelli di silenzio.

 

(Rossella Renzi, I giorni dell’acqua, L’arcolaio, 2009)

 

 

L’elemento acquatico è assoluto protagonista in questi versi di Rossella Renzi: latrice del segreto essenziale delle cose, capace di amplificarne la vitalità e di annientare le distanze che sembrano tratteggiare una divisione tra di esse, l’acqua si rivela anche scansione temporale e testimone serena del divenire incessante, dello svanire e del dissolversi, carezza ablativa il cui sciogliere e restituire ogni traccia evidenzia che ogni morte contiene in sé la premura della rinascita.

È dunque pacificante il tono, fin dal primo testo, in cui si dichiara immediatamente: “sono i giorni dell’acqua”, acqua che rende “più luminose” le cose e “scandisce la sequenza dei mesi”; in un processo di incorporazione, la maternità e il mare si accrescono a vicenda, con una dedicata cura al “fiore raro dell’innocenza” di chi verrà, sia esso il proprio figlio o “le genti che verranno”. Sin da questa prima chiusa viene tratteggiata l’ambivalenza dell’acqua, che allo stesso tempo “disperde i colori”, cancellandoli in sé come l’onda sulla rena, e “accarezza ancora una volta” con grazia materna e accogliente, pur se “nelle tempie batte l’urlo marino”.

Non è possibile resistere a questa “spinta essenziale”, che prende l’immobile posa dell’io del testo (“sdraiata sul letto del fiume / ho labbra serrate che tremano”) e, appunto, la sommuove alle leggi del divenire, “al suono del mondo intorno”, a un dinamismo che si traduce in chiedersi “cosa vuol dire morire”; e la risposta è abbandonarsi a questo moto, cedere alla spinta dell’essere, in opposizione al vincolo che trattiene (“sciogliere le corde che trattengono il corpo / stendere gli arti fino a toccarti”), in un “finire” che sorprendentemente pulsa di intensa vitalità.

Ed è un morire che si trasfigura in un rinnovato trasformarsi, in un perdere il proprio io in un continuo esistere ciclico: “ancora una volta muoio nel mare”, ma subito “un bambino raccoglie con premura / ciò che resta di me sulla riva”; e attraverso quest’eredità di fragilità umana (“con le mie ossa nere”) ecco la continua e incessante dedizione alla bellezza impermanente e fragile dell’esistere mortale, senza arrendersi a un moto immobilista (autentica istanza di morte, resa e negazione della vita), ma piuttosto a un costruire “castelli di silenzio”, pur nella consapevolezza che una nuova onda dovrà disperderne ogni traccia.

Mario Famularo