Suite Etnapolis, Antonio Lanza (Interlinea, 2019).
Era il 1970 quando Baudrillard, pubblicando La société de consommation, identificava il consumo come quel processo di comunicazione volto a simbolizzare gli oggetti, e capace di confondere a tal punto la domanda e la necessità da trasformare l’essere umano non più in semplice consumatore, ma in una creatura smarrita, incapace di volere e di abitare, e desiderosa solamente di farsi oggetto fra gli oggetti.
Trentacinque anni dopo in provincia di Catania, a Belpasso, un comune che conta meno di 28.000 abitanti, sorge Etnapolis: con circa 105.000 m² è il quinto centro commerciale polifunzionale più grande d’Italia.
Sono queste forse le uniche doverose premesse per intraprendere la lettura di Suite Etnapolis (Interlinea, 2019) di Antonio Lanza. Quella che ci viene presentata, suddivisa in sette sezioni – rinominate rispettivamente con i giorni della settimana –, è un’opera monolitica, tematica e sperimentale con andamento poematico. Tutto il libro ruota attorno a Etnapolis: i suoi turni, il cigolio delle saracinesche che albeggiano e tramontano, lo sciatto formicare dei carrelli per la spesa, il calpestio frenetico che anima le corsie. Il centro commerciale è talmente onnipresente da scomparire, da farsi atmosfera, simbolo, e infine logo. Tutto da esso dipende, tutto da esso viene inghiottito. Eppure, in questo contesto così disumanizzante, viene messa in scena con abilità l’iper-personalizzazione dei nomi e dell’umanità dei personaggi che lo popolano e che in esso si intrecciano. Tuttavia, le vite troppo umane e quotidiane degli abitanti di queste pagine, proprio in virtù della loro stessa umanità, non possono davvero affrancarsi, e subiscono come un processo di epicizzazione e mimetizzazione, restando digerite dagli stomaci orwelliani di un Etnapolis che è alcova e luogo di lavoro, svago, tortura e santuario. «Vanitas vanitatum, et omnia vanitas» si declina allora in «Etnapolis di etnapolis, tutto è etnapolis:/ non c’è centimetro o angolo/ a Etnapolis che non sia etnapolis» (p. 11). La settimana viene desacralizzata e quasi rimpicciolita, facendo iniziare significativamente il libro col capitolo della domenica invece che del lunedì. Anche se nel centro commerciale c’è una cappella, non esiste qui il riposo per il profitto divino, e il tempo distorto nel poema si spezza e si scandisce a più riprese con la voce degli altoparlanti, che richiama all’ordine clienti e commercianti come fosse un muezzin.
In maniera solo apparentemente paradossale è proprio il carattere monotematico della raccolta ad arricchirlo di una moltitudine di sfaccettature. L’autore, lungi da un mero approccio polemico, con piglio sociologico e quasi documentaristico sembra fissare un unico punto da ogni angolazione per mungerne tutta la linfa fino a esaurirne le possibilità. E lo stesso taglio spiccatamente sperimentale sopra accennato non è mai gratuito né onanistico: per aderire al suo oggetto, la parola di Lanza si fa polimorfa, spaziando dal verso breve alla prosa, dalla sceneggiatura teatrale all’inquadratura fotografica, dalla scrittura quasi figurativa dell’interfaccia social e degli spezzoni d’intervista censurati dai telegiornali, al taglio quasi ritmico e sincopato dello zapping televisivo.
Forse anche per ciò Suite Etnapolis mal si presta alla definizione o persino all’estrapolazione di singole strofe. È questo un libro spigoloso e onesto, perché non si premura di gratificare chi lo sta leggendo. Lanza sacrifica il poetico alla più fragile credibilità, rinuncia al verso fulminante per concretarsi attraverso la struttura del complesso. A discapito anche di una più molle godibilità di lettura, ciò che più sembra interessare all’autore è l’aderenza a ogni costo: quando il testo arriva a infastidire il lettore, lo fa come lo farebbe un venditore molesto; quando i versi sembrano ridondare, lo fanno come una pubblicità registrata, come le radio nei centri commerciali sintonizzate sulla stessa frequenza per tutto il giorno. E quando infine si legge per l’ottantaseiesima volta nell’opera il termine «etnapolis», ecco che la parola si insangua e, davvero, tutto è Etnapolis.
Dario Talarico
Vergine e pubica la domenica di Etnapolis
pochi minuti prima dell’apertura
al pubblico, ma già la percorrono
i primi polpacci pelosi e carrelli
Iperfamila che sferragliano vuoti.
Saracinesche aperte a altezze variabili
come palpebre offese al sole
con fiamme di logo al sommo delle porte.
[…]
La vita, poi, si attiva con precisa
lentezza dentro e fuori i negozi;
la vita è cieca, automatica: erompe
da gesti meccanici, mnemonici,
minimi, quotidiani, come la spazzata,
i numeri a tre o quattro cifre sul registro
dei corrispettivi, l’avvio dei computer.
Da metà galleria, dai chioschetti,
si scatena l’umido rumore di piattini
e cucchiaini – cucine
domenicali in cui il cielo
entra a allungarsi sul tavolo.
Le scale mobili del primo piano
sono lingue senza saliva per ora,
cigolano e ripetono il giro.
Augura una piacevole permanenza
alla gentile clientela la voce femminile
registrata che avvisa Etnapolis
apre; e c’è luce, calore umano e musica
e merce a attendere
in ciascuna delle attività commerciali.
Etnapolis di etnapolis, tutto è etnapolis:
non c’è centimetro o angolo
a Etnapolis che non sia etnapolis.
[…]
Scandendo BUONI ACQUISTI!,
cala la maschera
di lupa Etnapolis. È un attimo:
ai corrimani annerisce
lo smalto, per un diffuso
black-out i negozi
si oscurano come lastre,
ectoplasmatica sbianca la merce la merce,
gli emisferi sibilano e nel destro
s’infratta distorto il messaggio:
acquistare è buono. Tutta
Etnapolis è raggiunta da etnapolis,
non c’è angolo che scampi al suono
della sua voce.
[…]
IL CENTRO COMMERCIALE ETNAPOLIS VI COMUNICA CHE
OGNI DOMENICA
ALLE ORE DODICI
VERRÀ CELEBRATA
LA SANTA MESSA.
Santa e benedetta la domenica di Etnapolis,
santo il profitto santo lo sfruttamento santa la pena.
Se un gesù tornasse a Etnapolis
richiamerebbe i venditori scacciati
dal tempio e chiodi alle labbra
le tavole accomoderebbe
rovesciate ai cambiavalute
e gli schienali delle sedie
che sfondò sotto i sandali.
Cristo ghigna in croce
il capo reclino nei cieli sopra
Etnapolis e un corvo sgherro
avvinghiato al legno di cipresso
gli becca l’anello d’oro
massiccio al mignolo:
e scintilla l’alleanza.