Speciale Umberto Piersanti: candidato al Nobel per la Letteratura 2024

La notizia è di quelle importanti e arriva nelle medesime ore in cui imperversa la polemica per la Fiera del libro di Francoforte 2024. Nello specifico l’Italia sarà ospite d’onore e nelle piazze disegnate da Stefano Boeri (come ci dicono gli amici de illibraio.it, QUI), tra cui l’Arena e il Caffè Letterario quali spazi centrali del padiglione nostrano, sotto il cappello del titolo Radici nel futuro l’AIE ha invitato oltre 100 autori e autrici per 80 incontri previsti. Tra questi Viola Ardone, Stefania Auci, Alessandro Barbero, Alessandro Baricco, Annalena Benini, Cristina Caboni, Paolo Cognetti, Donatella Di Pietrantonio, Erin Doom, Claudia Durastanti, Elisabetta Gnone, Igort, Helena Janeczek, Felicia Kingsley, Nicola Lagioia, Claudio Magris, Antonio Manzini, Dacia Maraini, Lorenzo Mattotti, Melania G. Mazzucco, Paolo Nori, Valeria Parrella, Francesco Piccolo, Rosella Postorino, Carlo Rovelli, Susanna Tamaro, Pera Toons, Emanuele Trevi, Chiara Valerio. Tra i poeti, a cui saranno dedicati ben 2 incontri, troviamo Franco Buffoni, Giuseppe Conte, Vivian Lamarque e Davide Rondoni.

La polemica (in un mondo letterario italiano che pare essere ormai interessato solo al conflitto, all’autodichiarazione, al nome piuttosto che al testo – non osiamo più dire all’identità), verte sull’esclusione di Roberto Saviano ma anche, tra le bacheche social dei poeti, sull’assenza di Franco Arminio quanto sulla scelta degli invitati. Al netto della sterilità delle polemiche (che sterili veramente non sono mai in quanto, purtroppo, delineano una contemporaneità ben e troppo precisa) la notizia che giunge alla redazione di Laboratori Poesia è di quelle importanti proprio perché, oltre ad esserlo in sé, appare totalmente estranea a queste polemiche pur trattando appieno di storia letteraria, identià, radici.

Dopo quasi vent’anni, più esattamente dopo la candidatura del 2005, nel 2024 Umberto Piersanti viene nuovamente candidato al Premio Nobel per la Letteratura. Beninteso, una candidatura a cui seguirà un iter lungo e complesso e che anche noi di Laboratori Poesia seguiremo con attenzione. Ma una candidatura che oggi, a chi ha la buona pazienza di soffermarsi un attimo a pensare, dice tanto.


Umberto Piersanti a Una Scontrosa Grazia

A pochi mesi dall’uscita in Svezia delle traduzioni (Det förflutna är ett land långt borta. Dikter i urval 1967-2019, trad. it. Il passato è una terra remota. Poesie selezionate 1967-2019, Ekström & Garay, 2023, una scelta di poesie disposte in maniera cronologica dall’esordio del 1967 fino a Campi d’ostinato amore, La Nave di Teseo, 2020, traduzioni di Ida Andersen – si veda la recensione di Riccardo Bravi su Pelagos Letteratura, QUI), e dall’uscita in Italia della riedizione con alcuni inediti de L’urlo della mente per la cura di Alessandro Canzian (Samuele Editore, 2024, numero di apertura della Nuova Collana Scilla, con un’intervista di Alberto Fraccacreta, si veda la recensione ne Il Foglio sempre di Riccardo Bravi, QUI, il libro visitabile QUI), senza dimenticare quel dialogo alto, appassionato e sincero tra la propria officina poetica e gli autori più amati che è Memoria, edito da Vallecchi nel 2023 per la cura di Isabella Leardini (una nota per Laboratori Poesia a cura di Nicola Bultrini, QUI, il libro visitabile QUI), la conferma dell’invio della candidatura viene da Antonio Lera, Presidente dell’Associazione Agape Caffè Letterari d’Italia e d’Europa che propone i propri salotti letterari nei più importanti caffè storici Italiani ed Europei, lui stesso poeta candidato al Nobel per la Letteratura, proposto al Premio Strega e recente vincitore del Premio Procida Elsa Morante Poesia.

Ne abbiamo parlato con l’autore stesso (tra l’altro Premio Saba di Pordenonelegge nel 2021, QUI) mentre la foto riportata è uno scatto di Dino Ignani (la sua nota galleria di poeti QUI).


 

Vernalda Di Tanna: È trascorso quasi un ventennio e diversi libri si sono susseguiti fra la prima e la seconda candidatura al Premio Nobel. Come si sente? Cambiato? E com’è cambiata la sua poesia?

Umberto Piersanti: Credo di avere un curriculum più vasto e prolungato. Nel 2005 non avevo finito neanche i tre libri Einaudi perché l’ultimo, L’albero delle nebbie, è uscito nel 2008. Poi non erano ancora usciti Tra alberi e vicende (Archinto, 2009), Nel folto dei sentieri (Marcos Y Marcos, 2015), Campi d’ostinato amore (La nave di Teseo, 2020). Poi non c’erano tutte le traduzioni in giro per il mondo, ne ho avute molte. A prescindere comunque da tutte queste edizioni penso d’essere un poeta che ha un mondo da proporre.

Un mondo, perché non tutti, nonostante siano anche bravi, hanno un mondo da proporre. Io rappresento quel mondo antico che però non rendo mai in chiave neorealista, non racconto il sudore e le fatiche dei nonni e dei padri. Il mio è un mondo trasformato. Le mie Cesane sono un luogo, un mito grafico, dove avviene una mitologia personale d’ambiente che innesta fatti reali su avvenimenti immaginari. Il pastore che sale sull’arcobaleno insieme ai partigiani uccisi a Montebello. Imparare le pecore insieme al salto sulla luna per trovare il tesoro. In un’età senza tempo io credo di avere fatto delle Cesane una patria poetica assoluta. Qualcuno può fare, ad esempio come Milo De Angelis, della periferia di Milano la propria patria poetica, e diventa un luogo importante. Io credo di aver fatto di questo brano di terra appenninica un mito, una patria poetica che è anche una terra fantastica, una dimensione identitaria.

 

V.D.T.: Ha accennato a Milo De Angelis. Parliamo di una contestualizzazione nella contemporaneità letteraria?

U.P.: Sono nato prima di Giuseppe Conte e di altri. Il mio primo libro è del 1967 come opposizione all’Avanguardia per il ritorno a una poesia di sentimenti, di immagini, di narrazioni, di figure, a una poesia che si opponesse a una riduzione tecnico-linguistica da laboratorio. E questa è l’identità con la quale nasco. Poi, lentamente, prima faccio poesie legate soprattutto alla contemporaneità, alla mia giovinezza, al ’68 anche se mai in maniera troppo banalmente ideologica. Penso ad esempio alla poesia Mi commuove il ragazzo immortale de Il tempo differente edito da Sciascia nel 1974:

Mi commuove il ragazzo immortale
alla luce chiara di gennaio
ha il cammino lieve di un dio
e una femmina tenera sulla spalla.
L’ho sentito parlare con voce forte
ai ragazzi splendenti con le giubbe e i pastrani;
 
si scuote ora nei capelli lunghi e nel sorriso
gli si allaccia la compagna per lo stradino.
Anche tu sei entrato di soppiatto
insieme agli altri, con parole ed atti
già nella storia, come l’ultimo gioco.
Ma ti è ignara la meta
e il tempo che ti sovrasta.

Col tempo poi acquisto una fisionomia sempre più precisa attraverso il discorso della patria poetica, della perdita. Perché la fine della mia infanzia va di pari passo con la fine di un’antica civiltà contadina. Ma non narro questa civiltà per contrapporla a quella odierna come fanno Pier Paolo Pasolini ed Ermanno Olmi per esempio.

Racconto sempre un aneddoto di quando ero piccolo: mi mandavano in Colonia, nella Colonia sia dei preti che dei comunisti, l’importante che mi dessero da mangiare. Più o meno si facevano le stesse cose: si beveva il caffè d’orzo in grandi tazze di alluminio. Si mangiavano formaggini americani, anche in quella dei comunisti perché i russi di formaggini non ne avevano neanche per loro. Una volta mi ero preso una cotta per una bambina e volevo mangiare vicino a lei. Chiedevo quindi a Don Franco di mangiare vicino alla Lucianina, ma lui mi metteva vicino a un ragazzino col volto tutto butterato, tanto che a me il mangiare andava su e giù. Io chiedevo con insistenza di mangiare vicino alla Lucianina ma lui mi rispondeva che nella vita bisogna soffrire, e che nell’altra si sarà ricompensati. E va bene dicevo, ma c’è anche l’inferno. Se uno ha la scalogna di finire all’inferno allora soffrirà in questa vita ma anche nell’altra.

Ad ogni modo il punto è che non tolleravo questo bambino tutto butterato al quale mi toccava mangiare accanto invece che con la Lucianina. Però, quando se n’è andato via e mi ha abbracciato dicendo «Ciao Umberto, non ci vediamo più», ho avuto un tuffo al cuore. Perché tutto ciò che perdiamo irrevocabilmente non può che coinvolgerci e commuoverci.

Racconto questo per spiegare che io canto un’età trascorsa perché irrevocabilmente perduta. Il compito della poesia è anche quello di fermare il tempo. Anche le situazioni, i mondi, non solo le persone. Credo che il mio compito sia quello di raccontare di un mondo che in modo turbinoso si è trasformato. Naturalmente la memoria e la fantasia trasformano questo tempo, non faccio un resoconto sociologico.

Sono nato che non c’era ancora la bomba atomica, il 26 febbraio del 1941. Sono andato in una scuola dove non c’era la biro ma la penna col pennino, il calamaio, la carta assorbente. Ho visto tutte le trasformazioni possibili e immaginabili perché nel corso degli ottant’anni passati ci sono state più trasformazioni che in altre epoche. Le ho viste tutte. E ho una lingua che non teme il canto, non teme anche il rapporto coi maestri della tradizione ottocenteschi come Carducci, D’Annunzio. Sono molto legato alla tradizione italiana mentre tutta la poesia giovani parla sempre con gli americani, gli stranieri, con le donne, con le poetesse russe.

Sono un poeta fuori del tempo, ma proprio per questo credo di avere qualcosa da dare in questo tempo. Sono il custode di una memoria ma non in senso piagnucoloso o elegiaco (la parola elegia mi piace purché non gli si dia un suono troppo lacrimevole, se è un ricordo commosso e profondo delle cose va bene). Questa è la mia collocazione. Certo ho colloquiato anche con i poeti del mio tempo. Rimanendo sugli italiani Ungaretti, Montale e Saba. Ma anche i poeti della terza generazione, i molto amati molto Luzi, Sereni, Caproni, Bertolucci. Sono un po’ più lontano da Zanzotto perché lui è molto più sperimentale. E poi sono stato attento anche ai poeti del mio tempo come il succitato Milo, Conte e altri.

Una volta a Bologna ricordo mi hanno detto che non posso essere imitato. Questa è una forza ma anche una debolezza, perché in qualche modo fa di me un poeta più appartato.

 

V.D.T.: Un’ultima domanda: un maestro, un padre o una madre letteraria a cui oggi ritorna?

U.P.: La parola maestro a me non piace. Però gli autori a cui mi rifaccio di più sono ancora i più vecchi. Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Ungaretti, Montale, Saba, Luzi, Sereni, Bertolucci, Caproni.

Naturalmente ho un grande amore per esempio per Gozzano, che è un poeta narrativo e che è un narratore, come lo è in modi diversissimi Pavese. Ho tanti amori tra cui un certo Campana. Però se vuoi proprio una scala è quella che ti ho dato. E naturalmente al di sopra e al di fuori di tutto c’è Leopardi. Leopardi come dei numeri irripetibili. Nella costellazione che ti ho dato il sole attorno al quale tutti ruotano è Leopardi.

 

V.D.T.: Grazie mille e un grandissimo augurio per questa candidatura

U.P.: Grazie a te Vernalda e a tutti gli amici di Laboratori Poesia e Samuele Editore.

 

Foto di Dino Ignani