SPECIALE SALONE DEL LIBRO DI TORINO: Il libro della lettera arrivata, e mai partita – Mario Santagostini


Il libro della lettera arrivata, e mai partita, Mario Santagostini (Garzanti, 2022).

Sin da titolo, l’ultima fatica poetica di Santagostini produce un’inferenza che si dimostra necessaria alla comprensione del testo: il paradosso per cui si riceva qualcosa che non è mai stato inviato, e l’irragionevolezza del veder germogliare quanto mai seminato, nella conclusione dell’essere di ciò che non dovrebbe essere presente.

Ed è in questo tempo, che potremmo definire come tempo dell’arte e della poesia nel nostro, che il senso ultimo e profondo del testo incontra nell’assurdo la giustificazione al proprio essere tematica negativa, e luogo del non-essere.

Questo perché un assurdo (come lo è in fondo la scrittura poetica, prima ancora di ogni altra manifestazione artistica dell’essere umano) allorché risulti credibile, necessita di essere assunto certamente come stato prodromico alla comprensione dell’arte.
Il che si declina, in questo caso, alla poesia – se intesa come ente di natura ontologica, e perciò essente in quanto tale, e quindi valutabile ed apprezzabile come bilancio, anche autografo.

Stupisce questa tendenza all’irragionevole, soprattutto considerando il dato fattuale che il testo sia a tutti gli effetti una biografia: per l’appunto la fattura lirica di quest’opera, dando per assodato che coincida con la visione autoriale, assurge a molteplici ruoli.

In primo, sembra raccogliere le sorti dell’essere umano in una sorta di lirismo maiestatico – seppur taciuto, perché declinato alla prima persona singolare; per poi subordinarlo ad un sistema conoscitivo dell’essere, evocare un dialogo con il prossimo a cui assegnare una risposta, un confronto indiretto.

In secondo, pur sempre di una poesia egoriferita si tratta nel caso del nostro; e della sua percezione della vita, della morte, della compagine cittadina, delle gesta degli uomini; il che, coerentemente, comporta che il dettato poetico dell’autore esponga sicuramente i fatti e tutto il complesso dell’occasum riguardante le vicende biografiche.

Eppure – e qui si innesta l’illogicità di poco fa – la narrazione del nostro si arricchisce di una certa personalissima impersonalità, nel suo essere sottilmente ironico, come se lo sguardo individuale complimentasse una certa imperturbabilità della scrittura, e rifiutasse contestualmente il ruolo dirimente di risolvere queste questioni una volta per tutte.

Potremmo dire, dunque, che la tematica assolutistica del ragionamento di Santagostini incontri chiaramente tutti i dubbi che possono trapassare la coscienza nel corso della propria esistenza, con particolare attenzione alla riflessione filosofica e religiosa; senza però offrire una soluzione che lo riguardi ciecamente, o che perlomeno abbia a che fare con la poesia (ed il poeta di conseguenza) in sé e per sé considerata.

La deduzione attorno alla quale potremmo speculare, quindi, sembrerebbe essere che l’autore – di certo smagato da una certa bontà d’animo nell’accogliere aprioristicamente risoluzioni facili – offra una sentenza paradossale a tutti i quesiti che la vita sa offrire: un po’ rinunciando al lauro poetico, un po’ ricusando la funzione denominativa e denotativa tipica del sapiente, un po’ acquiescendo la natura ultima delle cose, come questione immeritevole di una responso manifestamente espresso, e perciò non meno definitivo.

Eppure, in questo non offrire una riscontro, sembra celarsi una risposta implicitamente e volutamente tacitata, come se il nostro procedesse demandando ad altri (o meglio: al lettore) la soluzione inequivocabile del tanto domandato, e per questo ricorre nel dettato di Santagostini il “forse”, ed il non-meglio-definito che affonda nel senso profondo di perdita e dell’aver perduto.

Il che procede fondando una zona di frontiera tosto che di confine, in cui si affacciano tutte le vicende dell’essere umano che si stagliano sulla campitura urbana, come periferia ingrigita e sofferente, di cui lo sguardo dell’autore depone testimonianza, e comprende nel consuntivo – amaro, e deluso talora, soprattutto nell’interrogare la tematica amorosa – vergato in questa pagina.

Carlo Ragliani

 
 
 
 

Quasi una variante
 
E come tutti, anch’io ho pensato
che la resurrezione non ha niente a che fare
con la vita.
Nemmeno con la mia.
Non si parlano.
Troppo più forte, la vita.
E più violenta. E zeppa di aiuti: l’io,
l’infinito, l’idea del bene, il cielo, Dio stesso.
E il risorgere è stato
per altra gente,
creata più profondamente di me,
e con altro spirito.
 
 
*
 
 
Finestra sul 1963, all’uscita del cinema Savona
 
– Un giorno, spariranno.
E basta un visto appena tirato,
a volte una postura
per capire dove: un angolo cieco in piazza Tirana,
o soltanto della nebbia.
O la strada che porta
ai cortili dove nessuno è mai arrivato.
Dicono – ce ne sono tanti, a Milano, di quei cortili.
E ci sono degli anni,
dove si arriva in pochi. E c’è un anno, dove
nessuno arriva? Non lo so.
Qui, soltanto parlando di ragazze amate,
o non amate.
E di me, che le ho perdute.
 
A te che mi conosci da anni: so che ti sembra strano, e lo
è. Eppure, così è stato il mio primo pensiero d’amore.
 
 
*
 
 
Oggi
 
Certo, l’idea di una vita
non degna d’essere vissuta un giorno
riguarderà anche la mia,
di vita. Vorrei solo che mi restasse il tempo di resettare
questo pc e girare un video
dove saluto tutti: è una vecchia idea.
Poi, penserò come ci sono solo vite degne
d’essere vissute.
Anche due, tre volte.
Anche quelle mai arrivate qui,
o non ancora.
O già arrivate due, tre volte.
 
Come la mia? Forse.