Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita.
Scritti sul calcio 1979-2004
di Giovanni Raboni
a cura di Rodolfo Zucco
Per Pier Paolo Pasolini il calcio era l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo: sul rapporto tra letteratura e sport si sono spesso interrogati fior fiore di intellettuali, quasi sempre svilendone la funzione o vivisezionando ciò che si poteva conservare da ciò che, apparendo irrelato tra i due mondi, doveva giocoforza essere cassato. Vent’anni fa di questi giorni ci lasciava Giovanni Raboni, insigne poeta, critico letterario e teatrale, traduttore, e proprio da poche settimane la casa editrice Mimesis per la curatela di Rodolfo Zucco e su impulso di Patrizia Valduga ha dato alle stampe un agile volume che raccoglie diversi scritti prodotti dal 1979 al 2004, anno della morte: vi sono compresi cinque poesie, dodici interventi giornalistici e due interviste, oltre all’apparato critico, attraverso i quali è possibile farsi una più che bastevole idea dell’attenzione che in Raboni riveste il calcio, metafora dell’esistenza, la sola disciplina sportiva che lo affascinasse: del resto si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita, recita il titolo del volume che dà forma ai contenuti di esso. In esso c’è speranza e c’è sofferenza, c’è furore e c’è disincanto, vi sono cadute e risalite, una quasi perfetta identificazione, come riporta lo stesso Vittorio Sereni (“nume tutelare che tutti ci accomuna”), che di Raboni fu “compagno di partita”, entrambi legati, come del resto Maurizio Cucchi, dalla fede nerazzurra contrapposta a quella dell’altra metà milanista condivisa ad esempio da Giansiro Ferrata e Alfonso Gatto. La partita di pallone diventa simulacro di un tempo totale e assoluto tra un prima, che assume le sembianze di una fremente e ardente speranza nonché attesa della gioia di una vittoria, e il dopo, un “tempo vuoto”, oscuro, che ha il senso di un’inazione. Nei versi di Zona Cesarini, ad esempio, la contesa sportiva è immediatamente percepibile: siamo coinvolti e “condotti” direttamente sul campo da gioco con gli odori, i rumori, le sensazioni sperimentati dagli atleti e dai tifosi sugli spalti mentre i movimenti si susseguono fulminei. La gioia effimera può sorgere e scaturire dal fato, dal caso fortuito, oltre ogni programmato intendersi o preventivo studio: la rete, l’urlo, l’alzare le braccia al cielo, quasi in estasi, durano lo spazio di un attimo eppure tutto sembra condensarsi, rimanere in sospeso così, per un tempo indefinito che viene espresso con i puntini di sospensione. Tuttavia il tifo, l’aderenza appassionata e talvolta irrazionale a una squadra, è mutato nel corso degli anni ed è altrettanto interessante osservare come in Raboni esso abbia raggiunto i più alti vertici in fatto di vigore, sentimento, pathos nei periodi più bui della formazione amata: quelli dell’anteguerra, in cui doveva lottare per salvarsi nella massima serie (oggi l’Inter è l’unico undici calcistico italiano a non aver mai subito dalla sua fondazione l’onta della retrocessione): più in là con l’età, pertanto, nel poeta si fa strada una malinconia pervasiva di fronte alle plurime vittorie conquistate dalla sua squadra negli anni d’oro, la malinconia di una “povertà” e di una costante sofferenza che erano lievito di speranza laddove ora tutto pare immediatamente conquistabile e, pertanto, scontato. Nel libro emerge inoltre uno sguardo sulla società dell’epoca (non così diversa dall’attuale, in fondo) nella quale la violenza, anche nello sport, sembra assumere di giorno in giorno connotati sempre più gravi e preoccupanti e verso la quale, dice Raboni, è esiziale chiudere gli occhi o evitare di parlarne. I temi civili, che in lui hanno sempre sollecitato e solleticato i versi, emergono anche nei suoi risvolti di riflessione e nelle considerazioni ‘a margine’, come nel breve testo “A sfogliare la stampa, ad accendere il televisore”: qui la penna sferzante cala sulle trasmissioni calcistiche grigie e tristi nelle quali superficialità e banalità sono ingredienti principali mentre tutto il vasto universo sociale legato alla capacità del calcio di toccare molteplici piani (dall’economico al sociologico all’antropologico) viene se non completamente obliato quantomeno derubricato a fenomeno occasionale. E che dire delle riflessioni sulla “necessità” di retribuire gli arbitri o sul valore attribuito al dilettantismo in un’epoca di professionismo (e quindi di lucro) smodato? Lo sport, dunque, come parte di un tutto, mai sganciato e scevro di cause e di conseguenze dagli altri contesti della società: a ciò Raboni rivolgeva il suo occhio critico, sempre aperto e costantemente all’opera, vivace e acuto. Un occhio, apprendiamo ancora dal volume, che gli faceva percepire il gioco del pallone e più in genere la passione sportiva come elementi la cui scaturigine era misteriosa, proprio come la passione intellettuale. Oscure nella loro purezza, due dimensioni che in lui, con forme e pesi differenti, hanno generato una tela feconda e cristallina capace a vent’anni di distanza di rappresentare ancora un prezioso lascito intellettuale e civile.
Federico Migliorati
Allo stadio andavamo presto
Allo stadio andavamo presto,
non volevamo perdere
la partita prima della partita.
In campo, uguali da confonderli
a dei giocatori veri, dei ragazzi
delle squadre chiamate primavera.
Guardarli era una pura meraviglia.
Forse perché correvano sul prato
con furibonda leggerezza
come se fosse, quello che facevano,
davvero un gioco – o forse
perché l’altra cosa, la vera,
doveva ancora cominciare,
era ancora tutta davanti a noi
con le sue ombre sanguinose,
con il suo cupo carico di gloria.
fonte foto: Rai Cultura