Un anno senza Roberto Pazzi, un anno senza lo scrittore visionario, il poeta spiazzante, l’oratore entusiasta, il maestro di generazioni di giovani letterati, l’uomo affascinato dalla sua Ferrara (“la mia camera da letto”, ebbe a definirla) da cui non volle mai allontanarsi mantenendo tuttavia salde radici anche nell’altro polo della sua esistenza, Bocca di Magra, il buen retiro di fior fiori di letterati. Scevro da etichette, inadatto a essere inserito in questo o quel movimento, Pazzi è stato un battitore libero, un intellettuale impegnato a promuovere il bello scrivere e il bel parlare senza mai perdere di mira il senso di un dire che appariva pulito e fluido, mai superficiale né lezioso. Mito e leggenda, realtà e finzione, storia e attualità trovano nella sua vasta produzione una felice sintesi, un ideale connubio segnatamente nell’ambito poetico, il primo amore mai rinnegato, anzi, rinvigorito, fecondato, alimentato continuamente sino alla splendida antologia apparsa nel 2020 per la curatela di Alberto Bertoni, il suo testamento spirituale.
Da quel tempo lontano in cui, mentore Vittorio Sereni, prese il largo con le prime esperienze di scrittura in versi (è del 1973 la raccolta d’esordio, recensita con vivacità persino da un giovanissimo Vittorio Sgarbi), molteplici sono le sponde culturali presso cui è sostato permanendo sempre un costruttore di storie, di nuovi mondi, di immaginazioni, ferocemente contrario a quell’io sbrecciato e asfittico tipico di molti autori odierni in cui l’autobiografismo è sfacciato: instancabile, infaticabile, inesauribile nella sua ricerca di una perfezione nella scrittura, affascinato da Cesarione e da Napoleone, da Cleopatra e da Ariosto, influenzato tra gli altri da Bassani, aveva saputo tracciare un cammino autonomo, mantenendosi sempre fedele a sé stesso, privo di malizia, spontaneo, generoso. La sua scuola di scrittura creativa, voluta non a caso a Ferrara, si era distinta per una vasta messe di virgulti, donne e uomini attirati certo dall’ars oratoria, dalle abilità dialettiche, dall’erudizione sconfinata di Pazzi, ma soprattutto dal suo essere vivacissimo letterato, uomo del nostro tempo che ha calcato i palcoscenici di altri tempi, viaggiando indietro nella storia e restituendocela trasformata, anche catarticamente riprodotta in certi medaglioni artistici, nei ritratti in punta di penna, fascinosamente ridestata dal silenzio per tornare carne viva e vera, pulsante di tremenda bellezza. Nella musicalità che abita la sua poesia, retaggio remoto di quel Saba su cui si laureò con l’Anceschi da lui poi definito “la mosca cocchiera della Neoavanguardia”, insiste la condizione di persona per la quale memoria e presente, sguardo e inconscio, immanenza e trascendenza, travaglio dell’esistenza e reconditi desideri acquisiscono lo status di icone, di insostituibili presenze-assenze.
La lingua è fruita con cura, plasmata con sagacia perché egli credeva ancora e ancora, testardamente, nel suo valore, anche di fronte a un mondo digitale, che pure frequentava talvolta anche con puntuta presenza, divenuto fagocitante e nel quale tutto si riduce a melassa insipida. Se ciò è stato vero per Roberto Pazzi ecco che a scacciare i fantasmi dell’oblìo che ogni mortale (e lui segnatamente, che voleva vedere Dio) desidera sfuggire ci pensa una realtà come il Centro Studi a lui intitolato, voluto da figure come Stefano Baldrati e Matteo Bianchi in primis insieme con altri amici di lungo corso: la sua sede, in Contrada della Rosa, 18 che fu per tanti anni la sua dimora (non posso dimenticare, mi sia consentito un ricordo personale, quel suo studiolo colmo di libri e di premi la cui finestra apriva allo sguardo su un curioso tempietto d’Apollo) ne salvaguarderà la memoria consentendo a studiosi e ricercatori, semplici amanti della letteratura e intrepidi divoratori del bello di cogliere l’originale segno impresso nel Novecento e oltre da colui che si considerava “un pesce di fiume / che teme di perdersi nel mare / e ne ode lontanissimo il destino”.
Federico Migliorati
Se esistesse chi ha ragione,
se ci fosse davvero qualcuno più grande
più forte
più coraggioso!
E la tua infelicità è soltanto
scoprire che il grande amico
il grande padre che illumina tutto
non esiste,
è scoprire che tu avevi ragione,
che l’altro che cercavi
eri ancora solo tu.
Si hubiese alguien que tuviera razón
si realmente hubiera alguien más grande
más fuerte
¡más valiente!
Y tu infelicidad es sólo
descubrir que el gran amigo
el gran padre que todo lo ilumina
no existe,
es descubrir que tenías razón,
que el otro que buscabas
seguías siendo sólo tú.
L’orto di Amelia
Fragile paese delle forme
eri un tempo tutta la mia ignoranza
spaventata dalla vista del mare,
la fila dei muretti a gerani
e le notti misteriose dei grilli.
Eri le montagne dell’ubbidienza
sopra di me a capo chino
e nell’orto la palma maligna,
che poteva cavar l’occhio a un bambino.
L’olio che brucia notte e giorno
è per dare il risveglio ai tuoi galletti,
dopo tanti sonni senza sogni.
El huerto de Amelia
Frágil tierra de formas
fuiste una vez toda mi ignorancia
asustada por la vista del mar
la hilera de muros con geranios
y las noches misteriosas de grillos.
Eras las montañas de la obediencia
sobre mí con la cabeza inclinada
y en el jardín la palma maligna,
que podía sacarle un ojo a un niño.
El aceite que arde día y noche
es para despertar a tus gallos,
después de tanto dormir sin sueños.
Le finestre finte
“Tanto ci vedremo ancora…”
Ti credo, ma quando?
Se non sapessimo invece
che era l’ultima volta
non avremmo la forza di mentire
da una finestra finta senza luce,
come quelle disegnate
sulle case che mi facevano stare
col naso per aria da bambino,
a spiare quando s’aprivano.
Bussano le prime voci
alle cieche finestre,
ci hai dimenticato,
promesse d’amore vantano primati
di giovinezza, letti di fedeltà…
Inutile difendersi,
nell’amnesia non c’è più posto,
l’assenza era sì un vasto albergo
ma le stanze a poco a poco
son state tutte occupate,
sottoscala e abbaini son pieni di nomi,
manca solo il mio,
e al sole le finestre s’apriranno.
Las ventanas falsas
«De todos modos nos volveremos a ver…»
Te creo, pero ¿cuándo?
Si no supiéramos
que sería la última vez
no tendríamos la fuerza para mentir
desde una falsa ventana sin luz,
como las que se dibujan
en las casas que me hacían estar
con la nariz al aire de niño,
espiando cuando se abrían.
Las primeras voces golpean
en las ventanas ciegas,
nos has olvidado,
promesas de amor ostentan primacías
de juventud, lechos de fidelidad…
Inútil defenderse,
en la amnesia ya no hay sitio,
la ausencia era un vasto hotel
pero las habitaciones poco a poco
fueron todas ocupadas,
los sótanos y los tragaluces están llenos de nombres,
sólo falta el mío,
y al sol las ventanas se abrirán.
Poesia
Ne scrivessi almeno una al giorno,
guarirei l’ansia di riempire il vuoto
appena smetto di esercitare
quel potere della mano,
col compito di farlo
per quelli che mai leggeranno.
Così accadeva ai mistici di pregare per
violenti e miscredenti
che rischiavano le fiamme dell’inferno,
tutti quanti da portare a forza in cielo.
Con lo stesso fervore insonne di Santa Teresa,
con la stessa fede di San Giovanni della Croce
io miscredente, io peccatore,
scrivo, per nessuno che mi vuole.
E a volte, come quei folli di Dio,
per un istante lo vedo anch’io.
Poesia
Si escribiera al menos una al día,
curaría la ansiedad de llenar el vacío
en cuanto deje de ejercer
ese poder de la mano
con la tarea de hacerlo
para los que nunca leerán.
Así les ocurría a los místicos orar por
violentos e incrédulos
que se arriesgaban
al fuego del infierno,
todos ellos para ser llevados por la fuerza al cielo.
Con el mismo fervor insomne de Santa Teresa,
con la misma fe que San Juan de la Cruz
yo incrédulo, yo pecador,
escribo, para nadie que me quiera.
Y a veces, como esos locos de Dios,
por un instante yo también lo veo.
Traduzione di Rocìo Bolaños