Speciale i Maestri: Emily Dickinson

Parte un ciclo di Speciali dedicato ai Maestri letti e ricordati da poeti e amici di Laboratori Poesia. Un modo per conoscere la poesia contemporanea attraverso la voce di chi l’ha ispirata, e per conoscere e riconoscere la più importante e impattante letteratura nazionale e internazionale. Iniziamo questo ciclo con Paola Loreto.

Alessandro Canzian

 
 

Considero Emily Dickinson uno dei miei maestri più importanti. L’ho incontrata quando cominciavo a leggere poesia consapevolmente, come una vocazione. Ho vissuto con lei quasi due anni quando, attraversando una crisi esistenziale, ho scelto di diventare anche una studiosa di poesia (ormai scrivevo già, irrimediabilmente e senza scelta). In quei due anni di vita assieme, quotidiana, Emily è diventata reale, viva, come poche persone sono state per me. La sua voce mi risuonava nelle orecchie sempre più distinta, non solo nelle pose e nei toni delle poesie che ci ha lasciato (la sua “lettera al mondo”) ma anche delle straordinarie lettere e frammenti in prosa. Prosa… come se esistesse, per Emily, la prosa.

Perché proprio lei ha lasciato il segno più profondo? (Almeno così credo: in realtà non sappiamo fino in fondo come sta andando e come andrà, con la scrittura.) Perché era cocciuta, e introversa. Sapeva un modo solo di esistere, di stare al mondo. Perché ha obbedito all’imperativo della scrittura. Perché siamo trovati da quello che siamo, e dalla scrittura, e non possiamo farci nulla se non imparare a farne qualcosa, a essere nel mondo, a stare al mondo, e a diventare quello che siamo anche (o soprattutto) attraverso la scrittura. Quindi l’esempio è quello della persona, quello delle scelte di vita: l’abbraccio della solitudine buona, che è un privilegio (e ancor più ai suoi tempi), e la dedizione alla scrittura.

E poi l’esempio è quello della scrittura stessa. Con lei ho cominciato a sviluppare la consapevolezza dei suoi mezzi. Sono andata a guardare cosa aveva fatto, come aveva fatto. Fino allora, la poesia che avevo imparato a scuola, che mi avevano insegnato, mi aveva commosso, certo, per le idee, i sentimenti, le intuizioni e per le grandi costruzioni, come quella della Divina Commedia; e ovviamente per il linguaggio, che mi accarezzava le viscere e mi commuoveva senza sapere perché. Ma con lei ho visto come si poteva fare: per questo è stata una maestra. Ho visto che si poteva scorciare il linguaggio, stortarne, torcerne la grammatica e la sintassi, essere liberi nello spazio del verso, nella scrittura, nella poesia. Esprimere nella maniera più infinitesimale la sensazione, l’impressione, l’intuizione, l’epifania più infintesimale. Che è, per me, il senso del mio stare al mondo, il senso della vita. È quel protendersi verso la bellezza, e cercare in qualche modo di farla diventare parte di noi, e diventarne parte.

Per me tutto in lei era ovvio. Quelle che chiamano le sue contraddizioni erano la logica più ferrea, perché erano l’unica spiegazione plausibile di quello di cui andavo facendo esperienza. Era chiaro – e geniale – per esempio che si potesse pensare alla morte come parte della vita, o che si potesse odiare e l’attimo dopo amare, inveire e poi adorare. E che si potesse disperare e l’attimo dopo avere il sentimento di essere trovata. Che si potesse rifiutare tutto e poi abbracciare tutto. Che si potesse essere alternatamente forti (inattaccabili) e fragili (vulnerabili). Questo era la vita ed era anche la cosa che possiamo avere tra le mani che è più vicina alla vita, che è la scrittura poetica.

E mi ha soggiogata quel suo modo di profferire versi sibillini, e oracolari. Il suo scrivere per sé, che proprio nel momento in cui meno le importava di quello che gli altri avrebbero recepito e pensato (“Publication – is the Auction | Of the Mind”) si caricava del potenziale più alto di significazione per tutti, o per ognuno, cioè per la quantità maggiore di lettori che la sua poesia avrebbe potuto incontrare nello spazio e nel tempo.

E ho aderito, riconoscendolo, a quello spirito “ribelle”, quel fingere di non opporsi, di andare con la corrente, di osservare le norme, per poi incrinare dal di dentro i muri e le fondamenta del già dato per farne crollare l’edificio perché un nuovo senso si liberasse.

Soprattutto, credo di avere letteralmente (e felicemente) metabolizzato senza accorgermi quell’apparenza di stare dicendo un nonnulla – qualcosa che non è rilevante perché è un gioco, uno scherzo, un pronunciamento leggero e impressionistico – mentre stai invece imbrigliando dentro le parole, il verso, e a tratti perfino la narrazione più innocua i significati più abissali e siderei: spaventosi, fatali. Come che le case dei morti sono “dolci e sicure”, e “gaie e contente”. O che i bambini non giocano sulle tombe perché “non c’è Spazio – | e poi – non è piano – pende | e viene certa Gente – || a metterci un Fiore – | col muso così lungo – | che abbiam paura che gli cada il Cuore – | e schiacci il nostro bel gioco –”.

Come dice il suo testo metapoetico più famoso, la poesia dice la Verità ma può farlo solo nel suo linguaggio obliquo, indiretto, che allude cautamente alla realtà ultima delle cose attraverso l’ossimoro. È nel pensiero paradossale che l’intuizione più ardita e potente, lancinante, comincia a farsi parola: sensazione che si chiarifica in un sentimento sostenibile, accoglibile:

Tell all the truth but tell it slant —
Success in Circuit lies
Too bright for our infirm Delight
The Truth’s superb surprise
As Lightning to the Children eased
With explanation kind
The Truth must dazzle gradually
Or every man be blind —
 
 
Dì tutta la verità ma dilla obliqua –
il successo sta nel Circuito
troppo luminosa per la nostra Gioia inferma
la sorpresa superba della Verità
come il Lampo spiegato ai Bambini
con argomento gentile
la Verità deve abbagliare per gradi
o ogni uomo sarà cieco –

Paola Loreto