Speciale Estivo 2024: Mahmud Darwish

Chi sono io senza esilio?

Riconosciuto come uno dei maggiori poeti del Novecento, Mahmud Darwish ha saputo declinare la propria erranza e la propria sofferenza della terra perduta, la Palestina, con l’identità linguistica di appartenenza, con la narrazione poetica di profonda semplicità e umanità, salvo poi ritrovare la sua stessa terra in un contesto metaforico e immaginifico.

Per Darwish la poesia è la capacità di descrivere la dimensione spirituale dell’essere umano, è il vero modo che fa della poesia uno degli strumenti più efficaci che avvicina le persone e le varie culture. Il punto di partenza è l’identità locale e nazionale. Il poeta ha l’obbligo di orientarsi verso tutto quello che è universale, egli cerca di umanizzare la storia e fa emergere la bellezza come risposta alla crudeltà del nostro tempo. Ma la condizione storica di Darwish lo costringe alla fuga dopo la Nakba, la Distruzione (1946 – 1948), la guerra che segnò l’occupazione israeliana del suo piccolo villaggio di nascita, al-Birwa, un tempo in Palestina. Inizia così l’esodo palestinese all’insegna di fughe dalle prescrizioni sioniste, con la sua famiglia Darwish cerca riparo a Beirut, in Libano. Dopo un anno ritorna in patria da clandestino, il suo villaggio era stato raso al suolo e la sua terra d’origine era diventata ormai parte dello Stato di Israele.

Quel ritorno coincide con la condizione di straniero nella propria terra, «alieno» o «ospite illegale» con cui Darwish, come ciascun palestinese, deve imparare a convivere, provando il senso di perdita derivato dalla rottura della diaspora. Dopo diversi arresti e una condanna per aver recitato in pubblico poesie contestatrici, il poeta abbandona definitivamente la Palestina, scegliendo la condizione di esiliato – errante che marcherà per sempre il ricordo della terra perduta. Lavorerà come giornalista e reporter in tutto il mondo da Beirut a Mosca, dal Cairo alla Giordania, e poi Tunisi, Marocco e Parigi prima di avere il permesso dallo stato israeliano di fare ritorno dopo ventisei anni di esilio a Ramallah in Cisgiordania, per visitare la sua famiglia. Morirà prematuramente a Houston, in Texas, il 9 agosto 2008, per le complicanze di un intervento al cuore.

Tutti i luoghi vissuti avranno odori particolari impressi nella memoria del poeta, la nostalgia lo riporterà in quei momenti, in quei posti come scrive in Presenza d’assenza, Una trilogia palestinese: «Le città sono odori. Acri è l’odore di iodio e di spezie. Haifa, l’odore di pini e lenzuola sgualcite. Mosca, l’odore di vodka con ghiaccio. Il Cairo, l’odore di mango e zenzero. Beirut, l’odore di sole, di mare, di fumo e limone. Parigi, l’odore di pane fresco, di formaggi e articoli di seduzione. Damasco, l’odore di gelsomino e frutta secca. Tunisi, l’odore di muschio notturno e di sale. Rabat, l’odore di henné, d’incenso e di miele».

Alla luce della sua condizione storica, Darwish ha cercato nella scrittura una sua propria dimora, una patria descritta con un certo stile per esprimere la sua duplice condizione di poeta e di palestinese. Ma ciò che più di ogni altra cosa ha veramente contato per lui è stata la libertà di un popolo, molto più importante del contenuto di una poesia e l’essere schierato sempre dalla parte dei più indifesi e più deboli. Per questo, in tutte le sue interviste ha ribadito l’importanza del dialogo, il bisogno di dialogo per conoscere l’altro, il diverso che richiede che il popolo occupante riconosca di violare la libertà altrui e il popolo occupato ha bisogno di sentire il mea culpa dell’avversario che ha il dovere di rispettare la libertà e i diritti di quest’ultimo.

A testimonianza di tutto ciò, ci rimane la sua scrittura, come un atto di amore, di sofferenza, di nostalgia, di patriottismo e di resistenza. Un testamento etico, umano e politico che sfocia nelle sue innumerevoli opere poetiche che nel tempo, per la loro significativa importanza storica, oltre che di alto valore poetico ed umano, sono state ripubblicate e tradotte da case editrici italiane. È il caso di Undici pianeti pubblicato per la prima volta nel 1992, rieditato nel 2018 per la collana Barzakh della casa editrice milanese Jouvence, con traduzione dall’arabo a cura di Silvia Moresi e del più recente Non scusarti per quel che hai fatto pubblicato nel 2004 e rieditato a marzo 2024 da Crocetti Editore, con la traduzione dall’arabo a cura di Sana Darghmouni e di Pina Piccolo. In entrambe le raccolte c’è un filo in comune che le attraversa, come un fiume carsico, quello dei temi ricorrenti come l’esilio, la memoria, l’identità, l’assenza, la guerra e la nostalgia sfogliati attraverso lo sguardo della storia e dell’io poetico.

Undici pianeti è uno degli ultimi poemi epici dell’età contemporanea in cui è centrale il tema della lontananza, molto spesso il poeta ha dichiarato: «Chi sono io senza esilio?» a testimonianza del fatto che l’esilio è la condizione che permette al poeta di esistere attraverso la parola poetica. Ma quest’opera comprende tutti gli esili, le umiliazioni e lo sfruttamento dell’umanità da parte dei popoli colonizzatori e avversari. Infatti la raccolta fa riferimento a due cambiamenti epocali nella storia della umanità accaduti entrambi nel 1492: la cacciata degli ebrei e arabi da al-Andalus dopo la Reconquista  e la cacciata degli indiani d’America allontanati dalle loro terre dopo la scoperta dell’America.

Da quel momento, entrambi i popoli parleranno per sempre di esilio e troveranno nella parola poetica e nella memoria nostalgica la loro dimora e la loro terra perduta: «Nel lungo esilio ti amo di più / […] più leggera la terra quando abbandona la sua terra. Più leggere le parole / e i racconti durante la notte. Ma il mio cuore è pesante, / lascialo qui, vicino alla tua casa, ad ululare e a piangere per i bei tempi passati, / non ho altra patria oltre al mio cuore, e nel lungo esilio ti amo di più. / […] Nell’esilio ricordiamo il profumo dell’araq all’albicocca, / e dimentichiamo la danza dei cavalli nella notte delle nostre nozze. / […] uccidimi, lentamente, così che io possa dire: ti amo di più di quanto t’amassi / prima di questo esilio. / […] Non mi feriscono più il basilico del tuo mattino / e i gigli della sera, dopo quest’esilio…». Più che una patria, qui la poesia diventa una matria che però non potrà mai sostituire la vera terra di appartenenza, così si fa memoria, metafora della condizione umana: «Colombo “il libero” cerca una lingua che qui non ha trovato, / e cerca l’oro nei teschi dei nostri amati antenati. / Ha avuto ciò che voleva della nostra vita e della nostra morte, allora / perché dal suo cimitero porta la sua guerra di sterminio fino all’estremo?».

Questa raccolta è un canto contro i crimini dell’umanità perché tratta di due eventi nei quali lo sterminio delle popolazioni rievoca episodi a noi più recenti, ultimamente all’ordine del giorno. I crimini contro l’umanità vanno di pari passo con la distruzione della natura evocata nella seconda sezione della raccolta, Penultimo discorso del «pellerossa» all’uomo bianco, in cui Darwish reinterpreta una famosa lettera che Seattle, capo della tribù dei Duwamish, aveva scritto al presidente americano Franklin Pierce nel 1854. Il tema principale è la sacralità della terra e dell’intero creato distrutta dalla prepotenza coloniale.

Fondamentale è la proiezione del poeta nell’altro, infatti egli utilizza il «noi» unendo non solo gli indiani d’America, ma anche i palestinesi e tutti coloro che vengono privati della propria terra e condannati all’esilio: «I morti non dimenticheranno coloro che, come noi, / si sono fermati perplessi sul bordo del pozzo: È forse Giuseppe il sumero nostro fratello, il nostro meraviglioso fratello, cosicché possiamo rubargli i pianeti di questo splendido cielo?». È Giuseppe figlio di Giacobbe colui che ha visto «undici pianeti, il sole e la luna prostrarsi davanti a lui», come ricorda un versetto nella XII sura del Corano, quello stesso Giuseppe che, ripudiato dai suoi fratelli, gli stessi che scacciarono gli arabi, i palestinesi e gli indiani d’America, sarà condannato all’esilio.

In Non scusarti per quel che hai fatto, scritto quattro anni prima della sua morte, la linea poetica dell’autore continuerà sull’ossessione della lontananza, questa volta sugli abissi della memoria che si fa più tenue nella dimenticanza e sulla geografia dei luoghi che solo la storia è capace di tracciare. Il titolo sottolinea, come un ostinato, lo scusarsi con «l’altro io», con l’altro fratello a sottolineare, così la prepotenza dei popoli occupanti che non rispettano la dignità degli altri, i diritti e la libertà degli occupati, degli altri fratelli, senza chiedere le dovute scuse, quasi a svanire in un oblio: «Sarai dimenticato, come se non fossi mai stato. / Sarai dimenticato come la morte violenta di un uccello, / come una chiesa abbandonata, / come un amore passeggero / e come una rosa nella notte… sarai dimenticato».

Un moto continuo tra memoria e passato abitato da odori, come quello del caffè che lo riporta alla casa della madre, indietro nel tempo: «A casa di mia madre la mia foto mi guarda / e non smette di domandare: / sei tu, ospite mio, me? / Eri tu ai miei vent’anni, / senza occhiali / né valigie? / Bastava un buco nel muro / perché le stelle ti insegnassero lo svago di fissare / l’eterno… / (Che cos’è l’eterno? Dissi a me stesso.) / E tu, ospite mio, sei ancora me com’eravamo una volta? / Chi di noi due ha rinnegato i propri lineamenti?». Il poeta è in continua ricerca, da esule nella sua erranza si sente ancora più affondare negli abissi del suo sé, quasi scisso in una condizione di essere fuori posto, essere esule di se stesso: «Domandai: “Chi è?” / ma non risposero. Sussurrai dunque al mio altro ‘io’: / “È quello che eri una volta tu… io?”. Ma distolse lo / sguardo da me / e i testimoni si rivolsero verso mia madre per farle / testimoniare che fossi lui…».

L’esigenza di perdersi nella memoria delle cose passate fa sì che la parola dell’ultimo atto di Darwish diventi sempre più immaginifica, qui il tema dell’identità è forte, diventa metafora e si manifesta attraverso la lingua di appartenenza che si trasforma nella sua vera patria e dimora perduta: «Ho la saggezza del condannato a morte: / non possiedo niente perché niente mi possieda, / scrissi il mio testamento con il mio sangue: / “Confidate nell’acqua, oh abitanti del mio canto” / […] Sognai che il cuore della terra è più grande / della sua mappa, / e più chiaro dei suoi specchi e della mia forca. / Sognai una nuvola bianca che mi portava più in alto / come fossi un’upupa, e il vento le mie ali. / E all’alba fui svegliato dal mio sogno e dalla mia lingua / dalla chiamata della guardia notturna: “Vivrai un’altra / morte, / cambia le tue ultime volontà, / l’esecuzione è stata rinviata una seconda volta”».

Alla base della sua poesia «C’è sempre un altro» e come egli stesso affermerà: «Una pace vera è un dialogo tra due versioni» e che «L’altro è una responsabilità e una sfida. Insieme facciamo qualcosa di nuovo nella storia. Il destino ce lo chiede». Darwish come Ettore, l’eroe troiano vinto che ha lottato fino alla fine con dignità per difendere la propria terra. Il suo continuo riferimento a Troia e il suo immischiare il destino dei troiani con quello palestinese, nella raccolta si impasta con le mura di Gerusalemme e la cultura musulmana, ebraica e cristiana: «A Gerusalemme, intendo dentro le antiche mura, / cammino da un tempo all’altro / senza un ricordo che mi orienti. / I profeti laggiù si dividono la storia del sacro / salgono al cielo e tornano meno abbattuti e tristi, / perché l’amore e la pace sono sacri e arriveranno in città».

Ogni poeta è in qualche modo ogni altro poeta. L’immedesimarsi nell’altro, solo per creare e imbastire un dialogo che ha come unico scopo la condivisione della pace, lo ritroviamo nella vicenda del cileno Pablo Neruda che si rispecchia in quella del greco Ghiannis Ritsos: «A casa di Pablo Neruda, sulla costa / del Pacifico, mi sovvenne Ghiannis Ritsos. / Atene dava il benvenuto a noi che arrivavamo dal mare, / in un anfiteatro illuminato dal grido di Ritsos: / “Oh, Palestina / nome della terra, / e nome del cielo, / vittoriosa sarai…”. / E abbracciandomi mi presentò facendo il segno della / vittoria: / “Questo è mio fratello”. / Così mi sentii vittorioso, frantumato / come un diamante, e di me non rimaneva che la luce».

Mahmud Darwish preso dall’entusiasmo per gli accordi di Oslo, che nel 1993 avevano fatto intravedere la possibilità di una soluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese, si dichiarò «cantore universale dell’amore e della libertà». Presto, però, il sogno di pace sfumò quando la cosiddetta soluzione dei due Stati prese piede. Ma, per tutta la vita, egli continuò a sperare in un altro giorno di amore e di libertà: «Un altro giorno verrà, un giorno femmineo, / alla metafora trasparente, compiuto, / diamantino, di visita nuziale, soleggiato, / fluido, allegro. […] Tutto è femmineo fuori del passato, / l’acqua scorre dalle mammelle della pietra. / Nessuna polvere, nessuna siccità, e nessuna sconfitta. / E le colombe dormono in un carro armato abbandonato / quando non trovano un piccolo nido / nel letto degli amanti».

Anita Piscazzi

 
 
 
 
Nell’ultima sera su questa terra separiamo i nostri giorni
dagli alberi, contiamo le costole che porteremo con noi
e quelle che lasceremo, qui… Nell’ultima sera su questa terra
non salutiamo niente e nessuno, e non troviamo il tempo per completare quel che siamo.
Tutto rimane immutato, ma il luogo cambia i nostri sogni
e cambia i suoi visitatori. All’improvviso non siamo più capaci di ironia
e questo luogo è pronto ad accogliere solo la polvere… Nell’ultima sera
godiamo della vista dei monti avvolti nelle nubi: conquista… e riconquista.
Il passato affida al presente le chiavi delle nostre porte:
Conquistatori, entrate nelle nostre case e sorseggiate vino rosso
dalle nostre semplici poesie. Se è mezzanotte, noi siamo la notte
e non esiste più alcun’alba che un cavaliere possa portare
giungendo dall’ultimo adhan…
Il nostro tè è verde e caldo, bevetelo! I nostri pistacchi sono freschi, mangiateli!
Ecco i verdi letti di cedro, abbandonatevi al sonno
dopo questo lungo assedio, e dormite sulle piume dei nostri sogni.
Le lenzuola sono preparate, i profumi aspersi sulla soglia, e molti sono gli specchi
in cui potete entrare… e allora entrate, noi usciremo tutti! Presto cercheremo
quel che era la nostra Storia accanto alla vostra Storia in paesi lontani,
e ci domanderemo alla fine: Dov’era l’Andalusia?
Qui o lì… sulla terra… o in una poesia?
 
da Undici pianeti (Editoriale Jouvence, 2018)
 
 
 
 
Un altro giorno verrà, un giorno femmineo,
alla metafora trasparente, compiuto,
diamantino, di visita nuziale, soleggiato,
fluido, allegro. Nessuno sentirà
alcun bisogno di suicidio o di migrazione.
Poiché ogni cosa, fuori del passato, è naturale e vera,
sinonimo dei suoi attributi originari.
Come se il tempo oziasse in vacanza… “Prolunga il bel tempo
della tua grazia. Illùminati nel sole dei tuoi seni di seta,
e aspetta l’arrivo della buona novella. Poi,
potremo crescere. Abbiamo ancora tempo
per crescere dopo questo giorno…”
Un altro giorno verrà, un giorno femmineo,
dal cenno canterino e dal saluto e verbo azzurri.
Tutto è femmineo fuori del passato,
l’acqua scorre dalle mammelle della pietra.
Nessuna polvere, nessuna siccità, e nessuna sconfitta.
E le colombe dormono in un carro armato abbandonato
quando non trovano un piccolo nido
nel letto degli amanti.
 
da Non scusarti per quel che hai fatto (Crocetti Editore, 2024)
 
 

Mahmud Darwish, Undici pianeti, Jouvence collana Barzakh Edizioni, Milano 2018. Traduzione dall’arabo a cura di Silvia Moresi, pp.86.

Mahmud Darwish, Non scusarti per quel che hai fatto, Crocetti Editore, Milano 2024. Traduzione dall’arabo a cura di Sana Darghmouni e di Pina Piccolo. Testo a fronte, pp.206.