Errore e castigo nella vicenda del conte Orlando
L’amore dissennato nel poema di Ludovico Ariosto
Che Ludovico Ariosto è consapevole dell’originalità della propria opera si comprende dalle prime ottave. Il poeta, infatti, amore concedendo, si propone di raccontare per la prima volta la follia amorosa del conte Orlando, paladino dell’esercito cristiano. È questa la ragione del titolo, che al nome dell’eroe accosta l’aggettivo “furioso”, indicante una condizione forsennata provocata dall’orribile perdita dell’intelletto. Ma quali i motivi della follia?
L’autore stesso, nel canto XXXIV del poema, chiarisce attraverso le parole di Giovanni Evangelista le ragioni della pazzia. Venuto meno per amore di una pagana, la bellissima Angelica, ai suoi doveri di difensore della fede, Orlando è stato punito da Dio con la perdita della ragione. L’apostolo è chiaro: “[…] Dio per questo fa ch’egli va folle, / e mostra nudo il ventre, il petto e il fianco; / l’intelletto sì gli offusca e tolle, /che non può altrui conoscere, e sé manco”1. Il volere divino, tuttavia, ha stabilito per Orlando una punizione a termine, di soli tre mesi, affidando ad Astolfo, dopo un viaggio sulla Luna, il compito di restituire al campione cristiano il senno perduto. E così accade. Nel canto XXXIX del poema, Orlando viene accerchiato dai paladini cristiani e costretto a inalare il senno recuperato da Astolfo.
Sebbene la seconda parte del poema presenti la follia di Orlando come punizione ultraterrena, la lettura dei canti XXIII e XXIV induce a un’ulteriore riflessione. Siamo a metà dell’opera e l’edizione è l’ultima, quella del 1532. Il conte, ancora alla ricerca di Angelica, si imbatte nel luogo dove la sua amata e il giovane Medoro hanno vissuto appartati il proprio amore. Proprio qui, guardandosi attorno, Orlando vede ovunque, incisi sugli alberi, i nomi di Angelica e Medoro. Il paladino, posto dalla Fortuna di fronte alla realtà, si illude nega l’evidenza; non può accettare ciò che vede e legge, nemmeno i versi con i quali Medoro confessa sulla soglia di una grotta di aver stretto la sua Angelica tra le braccia. Ma la capitolazione è prossima e l’imbrunire vicino. Il paladino giunge presso la dimora di un pastore, e di fronte alla prova tangibile del tradimento dell’amata, “[…] un cerchio d’oro, adorno/ di ricche gemme […]”2 donato al pastore dalla stessa Angelica, le sue resistenze si infrangono. Il dolore prende il sopravvento, e al pianto ininterrotto segue la devastazione del luogo in cui Medoro e Angelica si sono amati: “Pel bosco errò tutta la notte il conte; / allo spuntar della dïurna fiamma / lo tornò il suo destin sopra la fonte /dove Medoro insculse l’epigramma / […] Tagliò lo scritto e ‘l sasso, e sin al cielo /a volo alzar fe’ le minute schegge. / Infelice quell’antro, et ogni stelo / in cui Medoro e Angelica si legge!”3. Poi la follia, l’abbandono al bosco di armi e vesti, segno della metamorfosi che degrada Orlando allo stato brutale. Sarà proprio lui, irriconoscibile a sé stesso e agli altri, il responsabile di uccisioni e stragi, fino all’incontro del tutto inconsapevole con l’amata Angelica, salva per miracolo grazie all’anello magico che assicura l’invisibilità.
Follia, dunque, quella di Orlando, che pur esito di un castigo divino, è evidente conseguenza dell’errore che agli occhi di Ariosto ogni uomo può commettere nelle cose d’amore. Non solo l’inesausta e vana ricerca dell’oggetto desiderato, che secondo la prospettiva ariostesca risulta costantemente inafferrabile, ma l’ossessiva fedeltà all’immagine ideale della propria amata, creatura di assoluta perfezione da adorare e servire. Un amore distorto, esito della mera proiezione del soggetto, che Orlando – incapace di accettare qualsiasi perdita – rivolge gelosamente a una figura partorita dalla sua immaginazione.
E della tendenza insita in ciascuno di noi a vagheggiare nell’amore le proprie creazioni, si mostrerà consapevole un altro conte, Giacomo Leopardi, che anni dopo, deluso da Fanny Targioni Tozzetti, dichiarando caduta l’ultima illusione scriverà: “ […] Vagheggia/ il piagato mortal quindi la figlia/della sua mente, l’amorosa idea, /che gran parte d’Olimpo in se racchiude”[…]4.
Giulio Mazzali
Riferimenti bibliografici
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Giacomo Leopardi, Canti, a cura di Lucio Felici, Roma, Newton Compton editori, 1996 (1831);
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Italo Calvino, Orlando furioso di Ludovico Ariosto, raccontato da Italo Calvino (con una scelta del poema), Milano, Mondadori, 1995;
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Ludovico Ariosto, Orlando furioso e cinque canti, a cura di Remo Ceserani e Sergio Zatti, Vol. I – II, Torino, Utet, 2015 (1516).
1 Ludovico Ariosto, Orlando furioso e cinque canti, a cura di Remo Ceserani e Sergio Zatti, Vol. II, Torino, Utet , 2015, canto XXXIV, 65, p. 1209.
2 Ludovico Ariosto, Orlando furioso e cinque canti, op. cit., Vol. I, canto XIX, 37, p. 674.
3 Ludovico Ariosto, Orlando furioso e cinque canti, op. cit., Vol. I, canto XXIII, 129 – 130, p. 832.
4 Giacomo Leopardi, Aspasia, vv. 37 – 40, in Canti, a cura di Lucio Felici, Roma, Newton Compton editori, 1996, p. 182.