Omnia vincit amor
Sulle cause della follia di Orlando
Ho molto apprezzato l’intervento di Giulio Mazzali su Ariosto (QUI). Trovo meraviglioso che si possa parlare di un classico in una pagina. Dei classici tendiamo a non parlare, e sbagliamo. Perché loro invece ci parlano, anche se non ce ne accorgiamo. Anche se li evitiamo, o li ignoriamo. O forse pensiamo che sono troppo grandi e noi siamo indegni di parlare di loro, in una pagina su internet (e invece è bellissimo che Giulio Mazzali l’abbia fatto), spesso invece pensiamo che appartengono a un altro tempo e c’è una barriera tra noi e loro, non pensando che l’arte non ha tempo, e storicizzarla e dare un grande peso alla sua storia (nella scuola poi soprattutto) è stato un grande errore.
Ma venendo all’intervento su Ariosto, incentrato sulla causa della follia di Orlando, più che punizione divina, o “esito della mera proiezione del soggetto” (a quest’ultima propende Mazzali) questa follia è dovuta secondo me, molto più semplicemente, alla tradizione della poesia latina e italiana, a cui Ariosto è fedele: il vero eroismo non è nella virtù guerriera, o religiosa, o filosofica; il vero eroismo, per i latini (Catullo, Tibullo…) e gli italiani (Cavalcanti, Petrarca…), è la virtù amorosa: sostenere la bellezza con occhio fermo, fino a perdere la testa.
Come dicono i poeti siciliani, non è lontana l’amata, ma è vicina, e la devi vedere e sostenere il suo sguardo, anche se “fa tremar di chiaritate l’aere” come dice Cavalcanti, restare fermo davanti al suo viso accogliendolo tutto, per intero, e fuggire subito dopo come Dante nella cameretta (la “camera de lo cuore”), a riversarlo in poesia, o come Petrarca agli amici che pensavano che Laura fosse un simbolo rispondeva: “Se non ci credete, venite a vederla!”.
L’amata non è proiezione del soggetto, ma l’abisso meraviglioso del reale. Che il poeta affronta come si affronta un mostro. “O de le donne altero e raro mostro”, dice Petrarca di Laura, e mostro vuol dire meraviglia, prodigio. Qualcosa di smisurato, che è bellissimo e al tempo stesso terribile, orribile.
Ma se anche fosse proiezione del soggetto, nel soggetto vi sarebbe questo eroico coraggio di sostenere un abisso meraviglioso, nel soggetto insomma vi sarebbe l’abisso, il coraggio, la meraviglia, accidenti che soggetto meraviglioso! Restiamo incantati davanti a un mostro, il mostro che siamo.
Io penso che Angelica, Beatrice, Laura, Cinzia, Lesbia, Monna Vanna, Delia, Clorinda e pure, sì, Silvia, siano nella poesia la realtà stessa, a prescindere dal loro sesso, e che la realtà sia un abisso meraviglioso, che non dobbiamo nascondere, ma dobbiamo guardarlo in faccia, a rischio anche di perdere la testa.
Questo fa la poesia, e devo dire anche la scienza, anche lei è quest’occhio fermo sull’abisso del reale, come il cannocchiale di Galileo: tutte e due sono oggettive.
“Soggettivo”, “oggettivo”, ha senso ancora parlare di queste cose? Pensiamo ancora che c’è il soggetto da una parte e l’oggetto dall’altra, quando anche la scienza non lo pensa più da un pezzo?
La poesia non l’ha mai pensato.
Voglio chiudere con una mia poesia di un po’ di anni fa (primi ’90):
Ripenso adesso a come amai interamente
quand’ero ragazzo,
e a come ero sicuro che il mio amore era un angelo,
a come anch’io ero un angelo,
a come eravamo uguali
(ma lei era più uguale di me).
E adesso non dico: tutto questo è falso
perché la vita è diversa, la vita mi ha cambiato;
adesso invece dico: era tutto vero.
Nasciamo angeli e interamente amiamo,
con tutto il cuore del nostro amore ci innamoriamo
come dei bambini che non conoscono il mondo
e interamente moriamo.
PS: L’eroe di Tasso vorrebbe essere un eroe religioso, di fede, ma l’acme del poema non è il combattimento di Goffredo, ma quello di Tancredi (eroe amoroso) con Clorinda, poema nel poema, poema assoluto. E Virgilio, sì, crea un Enea che fugge dall’amore per il dovere, ma Didone si uccide, Didone ama interamente e interamente muore. Perde la testa, e la vita.