La figura dell’invidioso e il Canto XIII del Purgatorio
Il legame tra invidia e superbia nelle parole della senese Sapìa.
Scrive Publio Ovidio Nasone: […] il volto è tinto / di livido pallore […] non un’ombra, il cenno / d’un sorriso se non quello dettato / dalle sventure altrui […]1. È lei, l’invidia, donna insonne e tormentata, divenuta con l’affermarsi del Cristianesimo vizio capitale tra i più gravi.
Profondo conoscitore di Ovidio, e uomo immerso nel suo tempo, Dante Alighieri propone nella Commedia un ritratto puntuale dell’invidioso, chiarendo la relazione esistente tra la superbia, grave colpa originaria da cui lui stesso non è esente, e l’invidia, passione – peccato in grado di compromettere assieme alla salvezza dell’anima anche i rapporti sociali. L’incontro con le anime degli invidiosi avviene in Purgatorio, luogo destinato dalla Giustizia divina all’espiazione e alla purificazione. Siamo nella seconda cornice, nel canto XIII, ad accogliere Dante e Virgilio l’uniforme livore della pietra. Coperti da mantelli lividi e ruvidi, le anime degli invidiosi si sorreggono a vicenda stando faticosamente appoggiati alla parete, mentre un filo di ferro buca e tiene cuciti gli orli delle palpebre impedendo la vista. Voci aree attraversano la cornice, gridano alle anime esempi di carità e invidia punita. Il contrappasso è chiaro: avendo mancato di carità gli invidiosi si sostengono a vicenda non potendo ormai ciechi guardare gli altri con invidia. Il legame tra il peccato e il senso della vista è presentato dal poeta in modo inequivocabile, e avvalorato dall’etimologia della parola stessa, “invidia”, dal latino invidere, ovvero “guardare male”.
Ma chi è l’invidioso? Rispettando la felice logica narrativa, Dante risponde all’interrogativo dando voce alle anime incontrate. La prima, proveniente da Siena, si presenta esaudendo la richiesta del poeta, desideroso di conoscere la sua identità terrena: “Savia non fui, avvegna che Sapìa/ fossi chiamata, e fui de li altrui danni/ più lieta assai che di ventura mia”2. Se come sostenevano gli Scolastici nomina sunt consequentia rerum, l’anima – una certa Sapìa, della famiglia senese dei Salvani, il cui nome, per mezzo della radice latina sapere, è in relazione con l’aggettivo savio – ribalta nel presentarsi la rispondenza medievale tra nomi e cose, ammettendo di non aver mostrato in vita alcuna saggezza, di essersi rallegrata più delle sventure altrui che della sua buona sorte. Esortando il poeta a crederle pienamente, confessa la gioia sentita in piena maturità per la sconfitta subita dai propri concittadini presso Colle di Val d’Elsa e, vedendoli in rotta e inseguiti, di aver alzato lo sguardo verso Dio dichiarando audacemente di non temerlo: «Rotti fuor quivi […] e veggendo la caccia / letizia presi a tutte altre dispari, / tanto ch’io volsi in sù l’ardita faccia, / gridando a Dio: ‘Omai più non ti temo!’»3. Le parole di Sapìa, così vuole Dante, propongono al lettore il legame tra il peccato dell’invidia, che induce a “far vedere” un bene (quello dell’altro) come un male, e quello della superbia. A dichiarare questo legame non è solo il gesto di rivolgere lo sguardo verso Dio pronunciando parole di sfida, ma l’uso dantesco dell’aggettivo “folle”4 con cui l’anima purgante definisce il proprio comportamento. Nel lessico della Commedia, infatti, fin dai canti iniziali il vocabolo “follia” è da intendersi come “superbia”, peccato capitale più grave e causa originaria di orgoglio e disubbidienza. A commetterlo primo fra tutti “lo imperador del doloroso regno”5, Lucifero, reo di essersi ribellato e di aver originato con il suo tradimento la cavità dell’Inferno; colpevole, in quanto desideroso di eguagliare Dio, dell’invidia “prima” responsabile della diffusione della cupidigia tra gli uomini, “lupa” inquieta e mai sazia 6.
Invidia, pertanto, come peccato imprescindibile dalla superbia, concordemente all’insegnamento di San Tommaso d’Aquino, che nella Summa Theologiae riconosce all’invidioso l’incapacità di apprezzare il bene altrui in quanto limitativo della propria gloria ed eccellenza7.
Giulio Mazzali
Riferimenti bibliografici
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Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Firenze, Le Monnier, 1988;
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Publio Ovidio Nasone, Le Metamorfosi, cura e traduzione di Mario Scaffidi Abbate, Roma, Newton Compton, 2011.
1 Publio Ovidio Nasone, Le Metamorfosi, cura e traduzione di Mario Scaffidi Abbate, Roma, Newton Compton, 2011, Libro II, vv. 775 – 778.
2 Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Firenze, Le Monnier, 1988, Purgatorio, XIII, vv. 109 – 111, p. 228.
3 Dante Alighieri, Ivi, vv. 118 – 122, pp. 229 – 230.
4 Dante Alighieri, Ibidem, v. 113.
5 Dante Alighieri, La Divina Commedia, op. cit., Inferno, XXXIV, vv. 28, p. 507.
6 Dante Alighieri, Ivi, I, vv. 98- 99, p. 14.
7 Dante Alighieri, La Divina Commedia, op. cit., p. 219.