Speciale Estivo 2024: Alfonso Gatto
Poesie scelte e commentate da Andrea Matucci
Riscoprire, valorizzare, rivisitare un poeta non ancora adeguatamente compulsato o entrato nel ‘canone’ di un secolo, qui poco importa per quali traversie più o meno ideologiche, può apparire un compito arduo eppur necessario offerto alla comunità non solo di studiosi e ricercatori, ma vieppiù del pubblico della poesia. Di certo l’operazione promossa da Andrea Matucci, professore ordinario di Letteratura Italiana nell’Università di Siena e figura poliedrica di colto intellettuale con alle spalle, tra gli altri, imponenti ricerche su Machiavelli nonché più recentemente su testi poetici moderni, si presenta efficace e oltremodo interessante al fine di restituire il giusto peso a un autore come Alfonso Gatto, nato nel 1909 e di cui si avvicina il mezzo secolo dalla scomparsa, occorsa nel 1976.
Il volume, dato alle stampe per le Edizioni Helicon con una prefazione di Silvio Ramat e l’ariosa introduzione di Giuseppe Cerbino, si compone di una novantina di poesie, scelte e commentate tra le numerose costituenti la produzione del poeta salernitano a partire dalla raccolta d’esordio apparsa nel 1932. Il curatore compie un’opera meritoria in questo lavoro dando altresì valore alla metrica, in ciò ponendosi nel solco tracciato dallo stesso Gatto per il quale esso (horribile dictu in quest’epoca di versoliberismo sfrenato!) non è stato certamente di secondaria importanza rispetto ai contenuti veicolati con i versi: prendere in esame, anche sotto l’aspetto tecnico, le singole liriche appare del resto un esercizio non tanto di stile, ma proficuamente utile per comprendere le forme preferite da Gatto, che accanto a una buona prevalenza di endecasillabi, di settenari, di alessandrini, non disdegnava versi ipermetri che lo ricollegano a una prosa poetica. Egli si inserisce in quel filone ermetico che negli anni Quaranta avrebbe coinvolto altri autori insigni, basti pensare a Sereni o a Luzi, solo per citare qualche esempio tra i maggiori.
Memoria, amore, ricordo, slittamenti temporali verso il passato, rapporto padre-figlio, tematiche sociali, recupero della storia (i morti di Piazzale Loreto del ’44 e più in generale le vittime di ogni conflitto bellico, la bomba atomica e «l’Europa gelata al cuore» così attuale) si affastellano quali macro ambiti del verseggiare di Gatto nel quale non sono rari i rimandi ed echi a poeti del passato segnatamente Dante, Leopardi, Pascoli per arrivare agli amati Montale e Saba qua e là richiamati.
«Universo che mi spazia e m’isola, poesia»: è forse da qui che si può principiare per cogliere qualche spunto rilevante tra i tanti messi in rilievo da Matucci. La poesia infatti è, per il campano, un mondo, un tutto che a un tempo gli permette di «ampliarsi», di percepire ogni vita che palpita, di considerarsi e sentirsi parte di un intero sistema vivente e quindi di passare dall’io al noi per farsi voce di tutti e non più singolo grido di pace e di dolore; e dall’altro lo isola, lo rinchiude, lo ingabbia come in una prigione. Tuttavia questo rinserrarsi non è che il segno, il simbolo dell’amore stesso, ciò che di più buono esiste, capace in ogni caso di vincere anche la morte seppur il tutto si configuri venato da incertezza e solitudine.
Per questo intellettuale schivo, a cui si deve anche una feconda produzione in ambito pittorico (e non a caso uno dei suoi quadri campeggia in copertina e alcune liriche risentono del tratto marcatamente artistico da lui impresso) senza dimenticare l’impegno giornalistico, la poesia poteva e doveva essere anche una poesia civile, posto che si possano scindere i due ambiti (come rilevava Claudio Damiani citando Pascoli QUI). Assistiamo a un dubbio che si fa strada, come se il poeta, memore della lezione di Montale, fosse solo «un povero uomo, tra poveri uomini» e non più il Vate onnisciente a cui destinare il compito di guida e di insegnamento: rinveniamo ciò del resto dai numerosi passaggi legati al crepuscolo cioè a una condizione temporale che separa l’ultima luce dal primo buio, condizione che è in forma figurata anche quella dell’uomo, perennemente sul crinale tra vita e morte, tra felicità e disillusione, tra certezza e fragilità.
C’è però, in limine, anche una continua fiammella che va tenuta accesa ed è quella del sogno, un vocabolo che ricorre in svariate occasioni e che funge da elemento apotropaico, fonte di speranza, di serenità, di sguardo puntato su un altrove rispetto alla sofferenza in cui siamo immersi. Gatto non è un poeta elementare, con ciò intendendo la semplicità del gesto poetico: è tuttavia un poeta onesto, che non si è mai sottratto al richiamo dei drammi altrui anche quando parla di sé eternando così quella parola che, in Luzi come bene ricorda il curatore, deve sempre più farsi alta e crescere in profondità, «nella pace infinita», «con quel cuore segreto che mi batte / sempre vicino e sempre solo».
Federico Migliorati
Notte
Tremo d’esile vena per lontane
arie di suono, mi lusingo in volto.
Come alleviate toccano le vane
solitudini il cielo vuoto, ascolto.
Lungo sereno dileguano piane
voci apparenti nel mondo sepolto:
m’adeguano nel sonno di montane
bare odorose, ed il cuore n’è folto.
Padre morto
A fiore del sonno decanti
il tuo petto sommesso, la tregua
ove in povera carne sei sceso
a rassegnarti al profilo.
Leggero il tuo segno, una salita mesta
al plenilunio e al mare:
ma nei sensi confitto ogni dolore
s’allontana da te, resta nel buio.
Paese a sera
Il sole scende le scale, è di paglia
l’uomo che allarga il cappello nel tetto
d’un altro mondo che torreggia all’aria.
Il mare scende le scale, è di maglia
l’uomo che in cerchio si guarda e le mani
ha già lontano a posare una casa
sulla montagna che odora di cedro.
Forse è un balcone, un numero, un nome,
forse sul capo mi spuntano fiori.
Oh, quel ciclista che ronza è nei campi
la funebre messe della pazzia:
così allegra che a un frullo ne ride.
Sboccata all’ombra che rovescia il lume
la donna nuda pesa come un grappolo.
E la malaria mi accende nel cielo.
Passeggia l’uomo che cerca una storia.
Anniversario
Io ricordo quei giorni: nell’ignoto
mattino ove a svegliarci era il terrore
d’essere rimasti soli, udivo il cielo
come una voce morta. E già la luce
abbandonata dai morenti ai vetri
mi toccava la fronte, sui capelli
lasciava l’orma del suo sonno eterno.
Un grido umano che s’udisse, nulla
solo la neve – e tutti erano vivi
dietro quel muro a piangere, il silenzio
beveva a fiumi il pianto della terra.
Oh, l’Europa gelata nel suo cuore
mai più si scalderà: sola, coi morti
che l’amano in eterno, sarà bianca
senza confini, unita dalla neve.
Riviera
Del bel discorrere di feste e fiere
al sole della stanza marina,
la libecciata in vetrina
come un medagliere.
Ogni parola felice
di quel che dice
e il mondo una scommessa.
Ha freddo e nero dall’altra guerra
una donna sempre la stessa.
Nulla che scordi la terra.
Solo il mare volubile e gaio
orecchio da marinaio.