Speciale Aldo Nove: L’iperbole dell’infanzia e l’epifania triste

In occasione del 57esimo compleanno di Aldo Nove la redazione è orgogliosa di proporre una recensione di La più grande balena morta della Lombardia (Einaudi 2004) a cura di Davide Castiglione. Con i nostri migliori auguri all’autore.

La Redazione

 
 

Ho scoperto questo librino qualche mese fa scorrendo gli scaffali della biblioteca dell’Istituto Italiano di Cultura a Vilnius. Al di là della fama dell’autore – che pur conoscendo di nome, non avevo ancora letto – a risuonarmi dentro è stato il bizzarro titolo: la sua pesante estensione, anzitutto, sorta di esametro carducciano (novenario+senario) e corrispettivo iconico di un’enorme fantomatica balena di Lombardia; e quel tremore delle ribattute consonanti bilabiali, /b/ ed /m/, a sigillare un’alleanza fra l’enorme mammifero e la più popolosa regione italiana; nonché delle alveolari /l/ e /r/ a conferire al dettato liquidità marina (ed economica? Il liquido del contante, la Milano da bere…). L’immagine di copertina, che beffardamente riproduce una sorridente balena-giocattolo di gomma, morta perché mai stata viva, prodotta in serie, anticipa l’esplorazione testuale tanto dell’infanzia quanto della onnipresenza del commerciale: nota è, in Nove, la preponderanza dei nomi propri di brand, che assurgono a vero e proprio marcatore stilistico e si agganciano al mondo di plastica dei decenni scorsi, mondo di cui pare assurdo aver nostalgia oggi1. Per comune sensibilità o attrazione verso quanto invecchia fuoriposto, mi ero ritrovato a scrivere proprio di un “pesce volante che ride / con ruggine sopra le pinne” in una poesia di alcuni anni fa. Non poteva esserci un richiamo intertestuale consapevole da parte mia, quanto appunto un processo di poligenesi, una convergenza di sguardo in circondari non troppo dissimili.

Dopo l’impatto della copertina non sono tardate le evocazioni intertestuali di tale figura: in ordine cronologico, il motivo di un vagheggiato mare lombardo ricorre almeno in L’uomo coi capelli di ragazzo, canzone di Ivano Fossati del 1988 dove appare un “bel mare di Lombardia”; in L’oceano attorno Milano, poemetto di Milo de Angelis in Biografia sommaria (1999); e in una delle scene centrali di Werckmeister Harmonies, film di Béla Tarr del 2000 (precedente, dunque, rispetto al libro qui in esame), dove una balena morta viene abbandonata nella piazza di uno sperduto villaggio, tramutandosi in fenomeno da baraccone in via di decomposizione e in catalizzatore di oscuri presagi e distruzioni venture2. Che sia a sua volta, il motivo alluso dal titolo e ripreso nella copertina, una variazione dell’Infinito leopardiano, dove un’immensità non terrestre ammalia e assedia lo spazio antropico, la nostra comoda e soffocante zona di comfort? Che sia insomma la sopravvivenza tenace di un sublime minaccioso ma in potenza liberante? Come nel villaggio del film di Béla Tarr, anche la Viggiù natìa di Nove è sottoposta a forze misteriose, e così le poche migliaia di anime che abitano questa “comica, cosmica, disperata Spoon River del nostro tempo che scompare” (come si legge nella quarta di copertina). È da Viggiù, in effetti, che tutta l’inventio dell’autore erompe, scolpendosi in prose perlopiù brevi o molto brevi, veri e propri esempi di flash fiction che al racconto tradizionale preferiscono la fiaba, l’aneddoto, la pagina di diario, le mescidazioni con la poesia lirica e il teatro.

Prima ancora di aprire il libro, insomma, si è attivato un reticolo intertestuale e con esso una forma di riconoscimento estesa alla sfera affettiva e memoriale – la Valenza Po da cui provengo essendo un’altra cittadina quasi lombarda, situata a pochi chilometri dal confine interregionale, e avendomi provocato numerose poesie negli ultimi anni. E sembrandomi, la mia infanzia presocial tra fine anni ’80 e inizio anni ’90, non troppo dissimile da quella di vent’anni prima evocata da Nove; in queste sue prose fra l’altro c’è poca traccia diretta del terrorismo e degli anni di piombo (a eccezione forse di alcuni suoi prodromi, cioè la polarizzazione di comunismo e democrazia cristiana satireggiata in Cosa era il comunismo, pp. 154-158). È dunque con tutta questa serie di attese che ho aperto il libro.

A dare il via è la breve prosa eponima, che esalta il ricordo personale declinato all’imperfetto (“mia mamma mi portava a vedere la più grande balena morta della Lombardia”) collocandolo sullo sfondo del mito biblico della Genesi (“E migliaia di anni fa, prima che Dio si fosse proposto di trarre Adamo dalla polvere”) e di quello scientifico del Big Bang (“e moltissimo prima che un’immane esplosione desse inizio alla deriva di stelle”). Il tempo mitico è sintatticamente subordinato alla frase principale del ricordo storico, che assume peso anche in virtù della collocazione in rema, a fine periodo, e quindi con maggior rilascio d’energia dopo la costruzione dell’attesa. Il tempo storico (“fino all’ottobre del ’72 lo zoo di Como era dotato di strutture atte a ospitare ogni tipo di balena”) e quello cosmico, smisurato e non misurabile, si contraddicono nel senso comune ma si compenetrano nell’opera – a suggerire, credo, che ogni indelebile ricordo d’infanzia è assoluto, che ogni infanzia è la propria mitopoesi e non deve temere l’oltranza magica delle iperboli: la balena in questione, infatti, “era grande due o tre volte il sistema solare”, e benché morta, un giorno “uscì fuori da quel posto e si mangiò tutti quelli che stavano a guardarla”, in sprezzo al principio di non-contraddizione. In una climax iperbolica come l’infanzia, i cartoni animati e le pubblicità ancora grezze e ingenue, la balena finisce per mangiarsi Como, l’Italia, la Germania, “la luna e tutti i pianeti”, fino a Dio stesso, rivoltandosi perciò come un mostro contro il proprio Frankeinstein-demiurgo. Restano “il nulla assoluto”, l’io e la sua “tutina della Chicco”. Non credo sia fuorviante leggere la balena come allegoria della civilizzazione vorace, consumistica, come immagine stessa del neoliberalismo capitalista: figura simile, negli stessi anni (siamo nel 2001) è quella dell’Obeso di Giorgio Gaber, che tutto divora e tutto consuma, dove nuovamente la struttura a elenco rispecchia una quantità indifferenziata e nauseante. Comune nei due autori sono l’intento satirico e la vena surrealistica, anche se c’è in Gaber un didatticismo (l’io come pedagogo umanista) furiosamente rifiutato da Nove.

Seguono a questa un’altra cinquantina di prose, il che rende La più grande balena morta della Lombardia un libro più vicino alla raccolta di poesia che a quella di racconti. Pressoché tutti i testi, da quelli più centrali ai più ancillari, aggiungono un tassello al mosaico di una ricerca del tempo perduto in salsa padana e basso-mimetica: il lettore assiste a una sfilata di ossessioni – come quella per il Cottolengo, vera matrice di un’immaginazione infantile non proprio all’insegna del politicamente corretto –, di eventi di cronaca (Il giorno dell’arresto di Enzo Tortora sotto le scale ho incontrato un extraterrestre che, pp. 16-18), di episodi dove domina il basso-corporale, sia declinato nei termini del rito di passaggio sessuale (i giornalini porno e la masturbazione in Ciascuno deve pensare a Cicciolina per sé, pp. 40-46, brano che si conclude con “ero, grande”, e cioè con l’uscita dall’infanzia) sia di espletamento dei propri bisogni in luoghi non idonei (L’elastico dell’angelo custode, pp. 60-67), passando per la vita di personaggi irregolari (“Donatella era una pazza che buttava i figli giù dalla finestra”, p. 50; il “maniaco di via del Roncolino”, pp. 93-97), per situazioni fuori dell’ordinario (il testo eponimo e il bellissimo Le voci, che commento a breve), giochi (Il Piccolo Chimico Universale, scritto nella stessa vena mitico-cosmologica ma comica del testo incipitario), e altro ancora.

L’estensione dei pezzi è variabile: la maggior parte si attesta sulle 2-3 pagine, mentre gli estremi sono la mezza pagina scarsa di Ritratto di donna velata (p. 21) e le undici pagine della pirandelliana Le voci (pp. 27-38). Quest’ultimo è a mio avviso fra i momenti più alti del libro, presentando con straniata naturalezza la vicenda di un uomo che continua a ricevere condoglianze per la morte della moglie, la quale però è indiscutibilmente viva e infatti dorme tranquilla in camera. Il realismo di paradossi di questo tipo è la sua capacità di rappresentare gli effetti reali delle credenze sociali, cioè l’influsso unidirezionale del mondo semiotico-simbolico su quello fisico-materiale; e di conseguenza il carattere non fondato, fideistico, di molto agire umano. Nessuna delle figure accorse per porre le condoglianze – figure evanescenti, kafkiane, cartonate – si era infatti peritata di accertare che il contenuto di queste voci corrispondesse al vero, dove il vero altro non è che lo stato dei fatti. La fonte dell’osservazione diretta (la presenza o meno di un cadavere corrispondente alla persona in questione), nonché di quella della testimonianza per prossimità (l’esperienza del marito) sono così spodestate da un’anti-fonte capillare, senza centro e senza accountability: come la burocrazia, come il capitalismo nel ritratto che ne fa Mark Fisher in Realismo capitalista.

Gli ultimi anni hanno dato ragione a questo pessimismo: che cosa sono queste voci di paese se non l’incarnazione popolare della formula postmoderna e (di derivazione) nietszcheana del “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, con tutti i nefasti corollari delle narrazioni tendenziose, delle teorie del complotto, della disinformazione, delle fake news? Che cosa sono insomma se non la culla di tutta quella semiosfera ormai tossica, senza più vincoli né empirici (cioè riferiti all’esperienza concreta) né di coerenza interna, in cui navigano tanto il populismo anti-vax quanto la propaganda del Cremlino, per non dire dei miseri tentativi verbali di negare – da parte del governo israeliano ma anche dei suoi sostenitori – l’evidenza empirica, orribile e debordante, di un ormai plausibile genocidio a Gaza.

Qualcuno avrà storto il naso non appena la mia lettura di Le voci si è fatta attualizzante e politicizzata (anche se in realtà partiva dall’epistemologia): non erano certo state queste le mie riflessioni a una prima lettura, anche perché la scrittura di Nove è assai immersiva e contano anzitutto l’atmosfera e l’uso elastico, ritmico al limite del virtuosismo, della sintassi parlata. E però l’uso dell’allegoria e della parabola, e magari anche la consapevolezza che Nove è laureato in filosofia morale, fanno emergere simili risvolti etico-epistemologici dopo che si torna più ermeneuticamente sui testi. A un certo livello di generalità, Le voci mette in scena l’esatto contrario dello stallo amletico, che è riserva del genere tragico: mette in scena l’adesione irrazionale, l’abolizione del libero arbitrio, il comportamento ridotto ad atto riflesso, manipolabile, che nei romance cavallereschi era (più razionalmente!) affidato all’intermediazione del magico, a pozioni e incantesimi.

Se quasi tutti i testi, anche quelli più leggeri e dimenticabili, si leggono con godimento, ciò si deve comunque a uno stile che non perde quasi mai di mordente: e questo perché i suoi marcatori stilistici, utilizzati con scioltezza e senso ritmico, vanno tutti a costruire un punto di vista, o mind-style, il più possibile scevro di mediazioni: il punto di vista del bambino “tenero e feroce” (per citare l’ultimo Montale) in cui le sovrastrutture sociali (le norme, le convenzioni) non si sono ancora formate, e che offre pertanto un punto di vista alternativo e carnevalesco (si ricordi l’importanza del comico) erede dei fool Shakespereani che svelano la verità davanti (e contro) al potere costituito. Si prendano questi incipit o quasi incipit a esempio: “la felicità di avere un criceto è il piacere di guardare quando gira sulla ruota che hai messo sulla gabbia”, e “noi che lo abbiamo comperato lo guardiamo, perché non siamo criceti e usciamo in strada, andiamo nei negozi o a Varese coi genitori” (p. 52, da Il gatto orrendo, tra i vertici del libro insieme almeno a Le voci e La bufera); “gli adulti di questi millenni di vita umana non hanno gli strumenti per capire i problemi di un bambino” (p. 82, da Gli adulti di questi millenni); e ancora l’esatto e crudele “uno dei vantaggi che hanno gli adulti è fare le cose che fanno male” (p. 162, Il ritorno dei dinosauri sulla Terra).

In questo quadro, risulta allora palpitante e convincente il ricorso a figure di immediatezza orale/oratoria e semplicità quali l’anafora, la similitudine (“C’era questo motore che io ricordo fare spruzzi di acqua salata triste come la faccia di Romano Bilenchi”, p. 8), il discorso diretto libero senza virgolettato (“mia zia Piera mi diceva sempre Non studiare troppo”, p. 11), il “che” polivalente, le frasi nominali, le dislocazioni, la paratassi con punteggiatura minima o assente, ma anche le infilate di relative introdotte dal ‘che’ incistate nel flusso dei monologhi interiori o del discorso indiretto (‘riportato’) del narratore-bambino, l’aggressiva semplicità lessicale (“Una cosa che fa male è quando una persona grande impazzisce per un’altra e inizia a comportarsi in modo strano, o ammazza qualcuno”, p. 163), il tu generico (“e se tu schiacciavi il bottone rosso…”, p. 141) e, a livello di costruzione discorsiva, l’iperbole e la fallacia logica: “Un giorno un bambino che si chiamava Catò Enrico ha comperato un pacchetto di figurine del campionato e ne ha trovata una con la sua faccia ed è morto”, La figurina, p. 126 (dove la fallacia sarebbe risolvibile aggiungendo un formulaico “di spavento”: ma appunto l’operazione di Nove è qui quella di rendere letterale l’iperbolico modo di dire).

Una rassegna anche sommaria dello stile di Nove a questa altezza della sua produzione non sarebbe completa se tralasciassimo i numerosi nomi propri di personaggi pubblici, brand, prodotti, toponimi3. La loro storicità documentaria e la loro specificità situazionale è tuttavia come trascesa e riscattata nell’iperbole, nella mitopoiesi, nel rituale liturgico (non sono pochi i testi anaforici o con momenti anaforici, e quindi di andamento incantatorio): quasi che Nove avesse preso alla lettera il sintagma “religione del commercio” per riappropiarsene in chiave lirica – cioè in chiave di memoir, quasi che a farsi portavoce del mondo postmoderno del Montale di Satura non sia più quel grande vecchio ma appunto il bambino tenero e feroce di una sua tarda poesia. Non credo peregrino il riferimento a Montale, tanto più che il titolo di un testo, peraltro molto bello (La fine dell’infanzia, pp. 165-166) è quasi identico a quello dell’eponima poesia degli Ossi (Fine dell’infanzia). In La fine dell’infanzia, l’io è un bambino che sale su una giostra di cavalli, ma che nel farlo viene additato dai bambini più piccoli “perché ero troppo vecchio per quella giostra e in quel momento su quella giostra ho capito cosa significa essere un bambino anziano rispetto a quelli che sono nati qualche anno dopo di te” (pp. 165-166). La fine dell’infanzia non è quindi l’inizio della pubertà, ma l’inizio della categorizzazione, l’imposizione di un limite e quindi la fine della comunione col tutto, l’inizio della separazione e dell’esclusione. Esclusione che è anche quella di chi percepisce il prodigio in solitaria, come in L’invenzione della televisione a colori (pp. 144-146): qui la famiglia riunita attende l’arrivo dei colori sullo schermo – una sorta di epifania tecnologica –, ma solo la nonna afferma di averli visti, passando dall’esaltazione per la scoperta alla frustrazione per il non poterla sentire più vera attraverso lo sguardo degli altri, di chi dovrebbe esserle più vicino. A livello di inventio, queste due epifanie tristi corrispondono a due spicchi esperenziali talmente specifici che, in lettori altrettanto introspettivi, non potranno non suonare verosimili, e al tempo stesso carichi di un elemento di rivelazione, di saggezza acquisita. Forse il Novecento in letteratura (e la letteratura stessa) smetteranno di esistere – come spesso accade – solo quando verrà meno quell’elemento di scoperta non puramente formale; insomma quando chi scrive smetterà di vergognarsi delle proprie aspirazioni metafisiche, delle proprie e altrui ansie esistenziali.

Vilnius, 6-7 aprile 2024

 
 
 
 
In copertina: Mirco Toniolo / Errebi / Agf – Aldo Nove

 
 
 
 

1 Eppure eppure… in molti si viveva dentro un’ignoranza pilotata dall’alto, in un fabbricato Eden di morfina,

2 Nonché in Oceano Padano (Laterza 2015) di Mirko Volpi, e in una poesia intitolata Pavia città di mare e inclusa in Difetto di comunicazione (Perrone 2007) di Roberto Bonacina.

3 Devo a Carlo Bellinvia la felicissima intuizione che Nove usa i nomi di brand in chiave ontologica, cioè come fondamento immaginativo e non accidente estetico della propria scrittura.