Tre sillabe di silenzio – Franca Mancinelli

Franca Mancinelli si distingue per la verticalità della sua poesia, lavora per sottrazione, come Michelangelo che scolpiva rimuovendo il materiale in eccesso al fine di rivelare la bellezza intrinseca all’interno del blocco di pietra, liberando una forma intrappolata e già presente in potenza. In questo stesso modo, Mancinelli condensa le sue parole fino all’essenziale, senza perdere per questo la necessaria liricità di una poesia che voglia qualificarsi come tale.

La poesia di Franca Mancinelli riflette sul rapporto tra uomo e natura, mira a dare un senso alla memoria e ad ammonirci sugli orrori del presente, confermandola come una voce poetica italiana fra le più significative della sua generazione. La sua capacità di creare microcosmi letterari in pochi versi è evidente in opere come Tutti gli occhi che ho aperto (Marcos y Marcos, 2020), di cui ho già esaminato la silloge Alberi maestri e su cui ora torno per riflettere su un ulteriore passaggio che mi ha colpito in modo particolare, relativo alla metafora della scrittura come «camera oscura».

Tre sillabe di silenzio, si intitola la sezione di Tutti gli occhi che ho aperto che comprende il poemetto in due parti Alogenuri d’argento e il più ampio pometto in frammenti Camera oscura. Sono esattamente tre le sillabe che compongono la parola «silenzio», per cui questo titolo, tratto dal verso finale di Camera oscura, potrebbe essere interpretato in modo letterale. Anche la poesia in sé può essere considerata una composizione la cui materia è costituita da «sillabe di silenzio», dove non sono soltanto le parole ad avere importanza, ma anche ciò che non viene detto, che è sottinteso, evocato. Il silenzio tra le righe, le pause tra le parole, possono essere visti, quindi, come «sillabe» che contribuiscono al ritmo, alla cadenza e alla profondità del testo poetico. Questi momenti di silenzio lasciano spazio all’immaginazione e alle emozioni del lettore, creando un’atmosfera unica che va al di là delle parole, consentendo di riflettere, di respirare e di assorbire appieno il significato che si fa spazio nel bianco. Le «sillabe di silenzio» fungono, in sostanza, da ponti emotivi tra le parole, aumentano l’intensità, facilitando una connessione più intima tra il lettore e il poeta.

In questa sequenza di Tutti gli occhi che ho aperto, Mancinelli sembra esplorare il processo creativo confrontando la scrittura con la pratica della fotografia. La metafora dell’alogenuro d’argento, materiale utilizzato nelle vecchie pellicole fotografiche, simboleggia il potere della visione interiore e della creazione poetica, la capacità di “non chiudere gli occhi” di fronte all’oscurità:

non si chiudono gli occhi.
Vedo da dentro –il buio
dal germe a questo incavo:
scrittura, mia camera oscura.

Così come nella camera oscura vengono messe in luce le immagini latenti, la scrittura può far emergere pensieri, emozioni e concetti che altrimenti rimarrebbero nascosti. In entrambi i casi, c’è un processo di trasformazione: la luce nella camera oscura e le parole sulla carta rivelano ciò che altrimenti non sarebbe visibile. Inoltre, proprio come le immagini nella camera oscura richiedono sviluppo e messa a fuoco, così le parole scritte richiedono attenzione e rifinitura. L’immagine della scrittura come «camera oscura» sottolinea il potere dell’osservazione, dell’attenzione e della trasformazione delle esperienze in forme che possono illuminare e ispirare gli altri. Infine, sia la scrittura che la camera oscura possono catturare istanti significativi e preservarli nel tempo. Così come una fotografia può immortalare un momento specifico, le parole scritte possono custodire pensieri, esperienze e sensazioni, nel tempo.

Nella camera oscura, la luce filtra attraverso un’apertura e imprime un’immagine fedele e capovolta su una superficie sensibile. Analogamente, l’autore trae ispirazione da fonti esterne e interne, per poi esprimere e trasformare queste impressioni in nuove prospettive attraverso la scrittura.

Più il foro della lente è piccolo, più l’immagine è nitida e definita (anche se meno luminosa). Tutti gli oggetti appaiono a fuoco, sia che si trovino a pochi centimetri, sia che si trovino a distanza. Allo stesso modo, la scrittura può rendere tangibili concetti astratti, portandoli così vicino da farli risultare nitidi e comprensibili.

La prima parte del poemetto Alogenuri d’argento riflette su un’esperienza interiore e creativa, attraverso una metafora significativa, quella della «camera oscura». Questa immagine potrebbe rinviare anche alla mente, luogo in cui si riflettono e si elaborano pensieri, emozioni e visioni. Una camera oscura interiore che diviene lo spazio per esplorare concetti di trasformazione, morte e rinascita, così come di percezione e relazione con l’esterno.

Nella seconda parte di Alogenuri d’argento, pietre «si schiudono come uova deposte», un’immagine che rinvia alla nascita e all’emergere della creatività. Il soggetto che prende parola sembra accogliere questi elementi vitali, stringendoli in una mano e accompagnandoli verso la riva, suggerendo un atto di protezione e di restituzione al mondo:

aspetto che scenda la luce, resto qui, fino a che iniziano a camminare le pietre. Si schiudono come uova deposte da una madre che si è fatta di sabbia. Affiorano a un tratto le piccole zampe e la testa. Vengono a un mondo che ha già chiuso gli occhi. Mi avvicino: le stringo in una mano, le tengo sul petto. Poi le accompagno a riva, le riconsegno.

Il poemetto Alogenuri d’argento, introduce il più ampio poema Camera oscura. L’epigrafe riportata in esergo, «nell’errore non mi sbaglio mai», può rinviare alla ricerca dell’autenticità attraverso il processo creativo, accettando e imparando dagli errori. Nel primo frammento emerge un confronto tra l’azione creativa e il mistero della vita stessa, con riferimenti al gesto di scrivere come “trapasso” e alla presenza di un «pianeta disabitato» che emana un odore che rappresenta la vita in una sua forma primordiale:

Il dito scatta, trapassa. Il corpo un pianeta disabitato – e l’odore che fa, tutta la vita in un batterio.

Nella breve prosa seguente, compare l’immagine di due individui che si confrontano davanti a uno specchio, in una relazione o in una proiezione reciproca, mentre l’atto di spezzare il pane e il ritorno di un passero segnano momenti di condivisione e di movimento che infrangono la staticità della scena:

a un tavolo di distanza sediamo, ai lati opposti di uno specchio. A tratti affiora una parte del tuo viso o del mio. Ci riconosciamo, socchiudiamo gli occhi. Portiamo qualcosa alla bocca. Con piccoli balzi un passero si allontana e ritorna. Tu hai spezzato il pane. Da uno spazio aperto, da un angolo bianco, aspetti. […]

Attraverso una serie di immagini e di metafore legate alla fotografia e alla scrittura poetica, il poemetto Camera oscura esplora i processi creativi e la relazione tra la scrittura, la visione interiore e la percezione del mondo. Il frammento seguente prosegue nel processo di introspezione, trasformazione e confronto con l’altro. Viene riportata un’intensa interazione tra due individui attraverso immagini cariche di simbolismo e visceralità. L’osso che viene offerto suggerisce un’intimità profonda ma anche un senso di mistero e di passaggio verso qualcosa di oscuro:

chini la testa da un lato e mi guardi. Hai le braccia aperte, mi porgi un osso. Grande come un femore. Non so se è bianco, se ha ancora un po’ di carne.

L’autrice riflette su concetti come memoria, rimozione e trasformazione, cercando di dare senso a esperienze passate e presenti attraverso metafore che spaziano dal corpo umano alla natura, in una dimensione spesso intrisa di spiritualità. Nel frammento successivo, l’immagine delle «ceneri portate dal vento» potrebbe simboleggiare una forma di purificazione o di trasformazione interiore, ma anche il ricordo di persone care scomparse che restano nella memoria:

a questa distanza posso tenerti a fuoco. Ferma, come negli attimi di prima. Le tue ceneri portate al vento, nella mia camera oscura.

Nei frammenti che seguono, il ritorno di immagini corporee aggiunge una connotazione di crudezza e di matericità, mentre i richiami al vuoto, all’ossidiana negli occhi e alla vita che viene consumata lentamente conferiscono un’atmosfera densa e oscura all’intera scena.

Nell’ultimo frammento, la presenza del «polline», della «polvere» e dell’«albero / prima della bufera», enfatizza l’idea del ciclo della vita, della trasformazione e della connessione profonda tra gli individui e il cosmo:

siamo noi, polline e polvere.
Poche ore per ere di lontananza.
Come la chioma di un albero prima
della bufera. Avere due occhi
riconoscerti. Di ogni tuo nome
porto alla bocca
tre sillabe di silenzio.

Con un linguaggio essenziale e potente questi versi invitano il lettore a immergersi in una riflessione sul significato dell’esistenza e delle relazioni. L’espressione «Avere due occhi / riconoscerti» suggerisce una profonda interazione e familiarità tra due persone, come se attraverso lo sguardo si possa davvero comprendere e riconoscere l’altro. Questa immagine mette in luce l’importanza della percezione visiva e della consapevolezza nei rapporti umani. I tre versi conclusivi introducono un’ulteriore dimensione simbolica: «Di ogni tuo nome / porto alla bocca / tre sillabe di silenzio». L’atto di portare alla bocca «tre sillabe di silenzio» implica una dimensione di contemplazione, di rispetto e di accettazione dell’autentica identità dell’altro, può simboleggiare un’assimilazione della sua essenza. In questi versi il silenzio diventa un linguaggio in sé, carico di significati non pronunciati ma intimamente sentiti.

Questa silloge di Franca Mancinelli, con suggestioni corporee e profondamente simboliche, attraversa i temi della metamorfosi e della relazione, incoraggiando il lettore ad immergersi in un viaggio poetico che spazia dalla concretezza all’astrazione, dall’individualità all’universalità dell’esistenza umana.

Maurizio Lancellotti

 
 
La foto in copertina è di Dino Ignani