Rossella Renzi

Rossella Renzi 1

Foto di Daniele Ferroni

 
 

Michele Paoletti intervista Rossella Renzi

 
 

Rossella Renzi vive a Conselice (Ravenna), è insegnante nella Scuola Primaria. Ha pubblicato in versi: I giorni dell’acqua (L’arcolaio, 2009), Il seme del giorno (L’arcolaio, 2015) con la prefazione di Gian Mario Villalta, finalista al Premio Carducci, 2^ classificato al premio internazionale Luigi Di Liegro; Dare il nome alle cose (Minerva, 2018). Nel 2018 per la collana Gialla Saggi di pordeonelegge esce l’E-Book Dire fare sbocciare. Laboratori di poesia a scuola. È presente su diverse antologie, tra cui Ritratti di poeta a cura di Cinzia Demi (puntoacapo 2019), I volti delle parole – 65 fotografie di poeti-, a cura del fotografo Daniele Ferroni (Fondazione Tito Balestra, 2014), Il Canto della Terra (Samuele, 2011) e Salvezza e impegno (Fara, 2010). Dal 2003 è redattrice di “Argo – Rivista d’esplorazione” e dal 2018 è redattrice del Blog “Poesia del nostro tempo” https://poesiadelnostrotempo.it. È tra i curatori del volume L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingue minoritarie (Gwynplaine, 2014), di Argo, Poesia del nostro tempo – Annuario 2015 e 2016, (Gwynplaine) e di Argo – Confini (Istos, 2018).  Per la Casa Editrice Kolibris ha curato il blog “Donne in poesia”; ha collaborato alla realizzazione del blog www.ipoetisonovivi.com. Numerosi sono gli interventi su riviste di critica e letteratura: Graphie, Atelier, La Mosca di Milano, Clandestino, Farepoesia, Land, Le voci della luna. Per Radio Sonora (Community Web) conduce il programma “Conversazioni in poesia”. Collabora con artisti di vario genere per approfondire il dialogo tra la poesia e le diverse forme espressive.

 
 

Come nascono le tue poesie?

Le mie poesie nascono perché decidono loro stesse di nascere. La scrittura, per quanto mi riguarda, non è un gesto programmato o programmatico: arriva, spesso senza preavviso, e chiede di essere messa su pagina. A volte se non scrivo ciò che arriva al mio orecchio, ma anche immagini che appartengono alla fantasia, visioni o situazioni percepite visivamente, avverto un disagio. Il gesto della scrittura, che poi spesso si trasforma in poesia, è per me come un bisogno ‘fisiologico’, una urgenza della parola che chiede di essere ascoltata, accolta, lavorata. Dopo questo primo atto istintivo, segue infatti la fase del labor limae: la ricerca, il silenzio, la meditazione, il lavoro continuo sul senso e sul suono, sulle immagini e sulla musica, la sfida con le figure retoriche.

La creazione di una poesiaè dunque un processo molto complesso e anche faticoso, che richiede tempo, anche per capire se quella ‘cosa’ che ho scritto sia veramente poesia. Di solito il tempo è un prezioso consigliere: se il testo funziona, anche dopo mesi o anni, perché porta con sé qualcosa di importante, allora -probabilmente- sono davanti ad una poesia. Poi c’è il confronto con gli amici poeti, o lettori, quelli di cui mi fido maggiormente e con cui sono cresciuta; il dialogo sulla propria pratica poetica è un’altra fase fondamentale… penso infatti che la creazione di un libro sia un’operazione a più mani.

 

Quali sono i tuoi autori di riferimento?

Cerco di nutrirmi costantemente di letture, in particolare di poesia, ma anche narrativa, romanzi e saggi, perché il lavoro di scrittura si basa su un continuo scavo nei significati e nelle esperienze umane. I miei autori di riferimento sono molti e negli ultimi vent’anni – periodo in cui ho organizzato e lentamente costruito la mia officina poetica- potrei citare decine se non centinaia di nomi. Parto dalle letture fatte al Liceo, quando imparai ad amare Leopardi e poi Foscolo e i romantici. Per arrivare al Novecento, dove la selezione è veramente difficile: il primo amore è sicuramente Eugenio Montale, su cui ho scritto la mia tesi di laurea, facendo un confronto sull’uso della sua lingua in poesia, con altri Maestri quali Andrea Zanzotto, Vittorio Sereni, Giovanni Giudici. Poi ho conosciuto e amatoGiorgio Caproni, Antonio Porta, Amelia Rosselli, Antonia Pozzi, e puntando l’attenzione sugli autori stranieri, citoEmily Dickinson, Thomas Stearns Eliot e i più contemporanei Anne Sexton, Sylvia Plath, Ingeborg Bachmann… Per arrivare agli autori viventi, che cerco di leggere ma anche di ascoltare dal vivo, poiché incontrare un poeta è sempre una grande emozione.

 

Parliamo adesso di Dare il nome alle cose (Minerva, 2018). Vuoi raccontarci come è nato il libro? Qual è stato il percorso di scrittura?

 

In questo libro ho messo in atto un tentativo timido e prudente, che chiede di esserepronunciato sottovoce: Dare il nome alle cose è ciò che vorrei saper fare a questo punto della mia vita. Nonostante io mi stia avvicinando ad un periodo che può definirsi ‘la maturità’, intesa come momento in cui le idee dovrebbero essere più chiare e definite, la consapevolezza sui sentimenti e le situazioni più certa e determinata, anche attraverso la poesia – che ritengo una via fondamentale di ricerca e conoscenza – mi rendo conto che non è semplice dare il nome alle cose. È invece un processo difficile, in cui occorre mettere a fuoco e definire le cose, trovare e dare il senso, per comunicarlo all’altro, nel modo più aderente possibile; in particolare quando si tratta di sentimenti e situazioni cruciali dell’esistenza. Dare il nome alle cose è un atto di grande responsabilità nei confronti della parola e dell’altro.

Se ciascuno riflettesse a fondo prima di nominare e prima di dire ciò che abbiamo intorno e che sentiamo, forse il mondo potrebbe funzionare meglio.

Credo molto nel compito della parola e della lingua: tutto passa attraverso il pensiero, la riflessione che dovrebbe essere attenta, accurata, e la scelta delle parole è prima di tutto un gesto etico e politico, che condiziona le nostre azioni.

 

Nel libro il tuo sguardo si sofferma sui dettagli, sulle piccole cose. I testi sono un invito a soffermarci sulla bellezza potenziale, sulla meraviglia, a recuperare lo sguardo che avevamo da bambini e che abbiamo perso. É così?

Sì credo sia così. Sono una maestra di Scuola Primaria, da 12 anni lavoro con bambini dai 5 agli 11 anni e insieme a loro vivo anche io stessa un continuo percorso di crescita e conoscenza. Sono molto grata alle possibilità di esperienza umana che questa professione mi permette. Lavorare con i bambini, infatti, mi fornisce moltissimi stimoli per la poesia, e mi premette di restare in contatto, conversando e confrontandomi con loro, con una certa purezza dello sguardo. Proprio come afferma Giovanni Pascoli a proposito del Fanciullino, riprendendo il mito di Platone (Fedro77 E.) «È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi […] ma lagrime ancora et ripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due  fanciullini che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare ed egli vi tiene fissa la sua antica serena meraviglia». Vi è dunque una voce nascosta nel profondo di ciascun uomo, che si pone in contatto con il mondo attraverso l’immaginazione e la sensibilità: scopre aspetti nuovi e  misteriosi, che sfuggono ai sensi e alla ragione. «…perché egli è l’Adamo che mette nome a tutto ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose», è dunque capace di conoscere in modo autentico ciò che lo circonda, meglio di quanto possa fare l’uomo adulto,con la sua razionalità. Per questo spero di restare sempre un po’ bambina, nonostante la vita chieda altro.

 

Tutta la raccolta è attraversata anche da un forte senso del tempo che scorre e si  percepisce una consapevolezza di essere parte di qualcosa nel tempo, qualcosa che sta tra un prima e un dopo.

Il tema del tempo mi sta molto a cuore: è forse il tema della poesia e dell’arte stessa.

A livello antropologico, credo che scrivere poesia oggi abbia lo stesso significato di tracciare su pareti rocciose scene di caccia o di riti quotidiani: corrisponde a quella necessità dell’uomo di lasciare un segno del proprio passaggio su questa terra. Passaggio brevissimo e quasi insignificante se pensiamo alla storia del mondo. Questa riflessione fa tremare l’essere umano, che ha una tensione a comprendere le ragionidell’universo, che forse non potrebbe mai comprendere, se non abbracciando la fede (una fede qualsiasi). Nel mio piccolo, il tema del tempo è strettamente collegato al mio ruolo di madre, compagna, figlia: il tema del tempo è in relazione al bene che provo per le persone care (e viceversa) e se ci penso a fondo, questo problema mi fa stare molto male. Un giorno non ci sarò, non ci saremo più e cosa resterà di me, di noi? Forse una poesia, scritta per i miei figli, per i cari, per chi non incontrerò mai… perché il tempo non me lo ha permesso.

 

La poesia quindi ci mette in contatto col reale in maniera profonda, non offre risposte né vie di uscita. Essere un essere che sente, come scrivi in un testo, è dunque una condizione portatrice di lucidità ma anche di dolore?

La poesia credo renda più reale il reale: lo vivifica, lo amplifica… lo fa vibrare dentro di noi, portando una visione più lucida sulle cose, ma a volte anche più buia. La vita è talmente complessa che è impossibile comprenderla in ogni sua piega; forse la poesia permette di entrare in qualche piega, aumentando il nostro sentire, nel bene e nel male. Ma in questo gesto non siamo protetti: la poesia è una forma d’arte senza filtro, e bisogna essere disposti anche a stare male a mettersi completamente in gioco, con coraggio a volte con la stessa vita – come per molti poeti e poetesse che ho citato.

Ho scritto questo verso, in un testo“Odio il mio essere un essere che sente”, perché con la poesia mi sento senza protezione: è un salto nel vuoto o nel profondo del mare:se decido di fare mia quella profondità, accetto questa scelta con tutto il peso che comporta, e soprattutto cerco di farlo con responsabilità. Anche questo è fare poesia.

 
 
 
 
Siamo mondo contro mondo
in questa stretta dolorosa
ci proviamo a volare più in alto.
 
Tu che hai nomi diversi per la neve
e silenzi per tutte le ore
se la notte non dovesse bastare
conserveremo le palpebre chiuse.
 
 
 
 
 
 
Odio ogni cosa che abita questo giorno
la luce che si copre, la fine di settembre.
Odio il mio essere un essere che sente.
 
Sposo la lucertola che da poco
si è stabilita sul mio terrazzo
Lei come me ama i fiori e le piante,
ciò che entra nel mio orizzonte
mentre ogni cosa svanisce
e nulla ci appartiene.
 
 
 
 
 
 
Ora, devi imparare la distanza
misurarla ad ogni minuto
col fiato sospeso, lo sguardo
sullo stesso vestito sbiadito.
 
Imparare la distanza
come una disciplina: una tecnica
di separazione tra spazio e tempo
tra nuvole mute sul grano arso.
 
Sulla parete bianca della stanza
c’è una macchia
è il sole nero della bellezza
il lago che ti cresce dentro.
 
Nessuno può arginare il suo moto
né ascoltare quel suono
che arriva da lontano
e tu lo accogli come un salmo nuovo.
 
(luglio 2016)
 
 
Le poesie sono tratte dalla raccolta Dare il nome alle cose (Minerva, 2018).