Rivelazioni d’acqua – Camilla Ziglia


Rivelazioni d’acqua - Camilla Ziglia

Rivelazioni d’acqua, Camilla Ziglia (Puntoacapo Editrice, 2021, prefazione di Ivan Fedeli).

Nell’incipit di Rivelazioni d’acqua Camilla Ziglia sembra rivolgersi al lettore e invitarlo a entrare in quella che è la sua visione delle cose, entrare nei luoghi a lei cari.

E così, da subito, chi legge viene trascinato dentro la raccolta poetica a osservare dal punto di vista di quell’albero, di quella vita ( …nell’accordo/ – piantato il mio stesso giorno -) che si incarna e inarca sulla sponda del lago fiorisce/ sempre fiorisce prima .

Ed è proprio dalla sponda, da quel preciso punto, che tutto si può osservare. La raccolta non poteva che avere inizio da lì, quasi dentro il lago – ma solo quasi – perché non è lo svelamento delle acque che qui deve avvenire, ma è piuttosto un esercizio di vita e di vista, il gesto dello sguardo che viene ripetuto nel tempo. La quotidianità che si fa mistero. Quando si crede di aver visto tutto ecco che si scorge qualcos’altro. Sta in quel momento l’inafferrabile, il punto più alto della raccolta che si ripete e ripropone con frequenza ritmica e scandisce le stagioni: di mancanza, di sangue e perdono, di promesse e di percorsi.

La scrittura di Camilla Ziglia è un esercizio di precisione, condensa il senso e non esce mai da un contorno invisibile ma reale, come un elettrone che si muove sull’orbita immaginaria attorno al nucleo. L’autrice riesce dunque nell’intento e, in pochi versi, rende tutto contenuto e tutto sospeso nella brevità dei testi.

La vista è il senso che maggiormente domina nella raccolta, ma proprio quando è stata messa a fuoco un’immagine tanto nitida da apparire simile a un quadro, ecco lo scarto emozionale, un guizzo che distrae e precipita altrove. In ogni poesia avviene questo. Solitamente è la prima strofa a essere descrittiva ma nei versi che seguono, nelle chiuse in particolare, pare esserci un’esortazione: Ricordati, tu che leggi, c’è dell’altro! Guarda con “L’occhio della mente”, perché ogni mente, come bene ci ricorda Oliver Sacks, inventa e reinventa l’inafferrabile vastità del mondo esterno.

E a quel punto il lettore incontra cose diverse rispetto a ciò che forse la stessa autrice prospettava, e sente che in qualche modo questi testi gli appartengono.

Ziglia interviene spesso sui testi con effetti di enjambement che amplificano in chi legge il senso di straniamento, soprattutto dove avviene lo scarto tra “vedo” e “sento”. Arricchisce i versi sapientemente con allitterazioni e rime mai scontate o in eccesso, che vengono intrecciate in modo lieve, tali da passare quasi inosservate. Le virgole sono poche e perlopiù collocate dentro il verso, quasi mai alla fine, effetto che va ad accentuare la rottura o coesione del verso con quello precedente o successivo.

Nella prima sezione, “Stagione di mancanza” , vita e morte si confrontano, Paiono docili vita e morte/ insieme, terribili . Appare chiaro qui come la parola insieme , messa nell’ultimo verso, anziché nel penultimo ne modifichi sostanzialmente il senso. Vediamolo: Paiono docili vita e morte insieme diventa invece insieme, terribili. Il senso è capovolto.

 
Dove il prato espone la groppa
ai primi raggi sale
in controluce
il respiro della terra
che si fonde
al fiato quieto del cavallo.
Paiono docili vita e morte
insieme, terribili.
 

E ancora, Può essere la morte tanto/ pazza della vita da guardarla/ piano negli occhi/ e alitarle in bocca? La morte qui è salvifica o malefica? Alitarle in bocca in un primo momento fa sembrare che la morte vada in soccorso alla vita, ma è più probabile che soffiando aria mortale nella bocca della vita se ne appropri definitivamente.

Le nebbie avvolgono la terra più grassa, fertilizzata in attesa di altre stagioni, e tutto è messo a riposo, la neve compare sulle cime. È il momento in cui si fa fatica ad ancorarsi, le dita dei piedi troppo corte/ per tenersi aggrappati alla terra, oppure …gli amanti /senza misura, smuovono/ frane dai talloni scalzi. Qui si avverte l’incapacità di mettere radici, di trovare stabilità.

Questa è dichiaratamente stagione di mancanza.

Nella seconda sezione, “Stagione di sangue e perdono” , poche poesie ci portano in un altrove dove a dominare sono il freddo e la neve. Qui avvengono strappi e lacerazioni: Eccolo là che ancora lacera/ le proprie vesti, è violento il cielo stamattina, invincibile! Oppure lo strappo sull’altissimo universo oppure Indoviniamo il lampo all’orizzonte/ […] che ancora è giorno / sul ghiacciaio.

È anche la sezione in cui l’autrice si rivolge sommessamente a qualcuno: Chiedimi se t’ho aspettato. In fondo si intuisce che basterebbe questo a sciogliere sangue rappreso in un nodo del legno, a far ripartire la vita che è lì, a riparo della corteccia dell’albero; basterebbe a far scorrere di nuovo la linfa ad aprire le mani, ad accogliere nuovamente la primavera. Basterebbe.

Ma se ciò non dovesse accadere (pare suggerire il primo verso dell’ultima poesia che chiude la sezione) Forse getterò nel lago il tuo ciondolo […] Dal fondo appena mosso/ lui vedrà me (il ciondolo sarà in grado di assumere sguardo umano, vedere lei di spalle, in esplosione lenta ) […] e la nenia, consumata e calma,/in punta di dita trasformerà il sangue in perdono, in una nenia, un mantra, forse una preghiera. Perché è necessario che sia data la forza di perdonare per aprire una nuova stagione.

Nella sezione, “Stagione di promesse” , si va incontro a una fase di nascita e di rinascita, ciclo che naturalmente avviene in primavera. Ma ciò che lascia i rami neri// a ricordare com’erano sul cielo di gennaio suggerisce che la stagione di sangue e perdono, seppure alle spalle, abbia comunque lasciato una profonda traccia, perché in fin dei conti la pelle tiene il segno , come la roccia che conserva i segni dell’erosione, del gesto più insistente.

C’è un momento dell’alba/ che torna al tramonto e così, quando tutto sta per avviarsi a nuova vita, proiettando in alto i lunghi fusti fino alle foglie/ che tremano/ ansimano di luce, quando si disegnano i sogni (un volto infantile, occhi, un sorriso esitante, si intravedono una culla, una parola nuova, un altare…) l’alba torna al tramonto. Questa cucitura del tempo sembra impedire ancora la realizzazione del giorno.

Cadono le spalle/ l’aria si sgonfia in un gesto di sconforto. Ma ecco che in un attimo è giorno e tutto può proseguire stringendo le mani che si offrono tese, vuote, ma con tutta la vita scritta dentro. Si riparte da lì. Si riparte dall’amore. Da dove le mani si spalancano.

L’ultima sezione è “Stagione di percorsi” dove la luce si fa strada nel respiro/ e porta nel petto/ il suo paesaggio. In questa parte, che chiude la raccolta, ritroviamo: luce e respiro, aria scheggiata, acqua sbattuta che esplode in dettagli. Da un verso all’altro, da una poesia all’altra, c’è una continua amplificazione di luce, contaminazione di rimandi. Si delineano cammini di luce, ben lontani da quella oscurità più limpida che faceva capolino dal ventre nero del lago nella “Stagione di sangue e perdono”. Qui i percorsi sono mappe d’oro e i bambini si fanno corpi in controluce, compaiono mani ad avvolgere la boa, caviglie a scansare il viscido alle caviglie, dita dei piedi che si sporcano di sabbia, si intuisce un abbraccio. La comparsa dell’umano è accennata, eppure simbolica in questo contesto non umano.

Ma le verità non si svelano mai completamente, trattenute nel ventre dell’onda. E mentre si osserva la superfice calma delle cose compiute, in profondità l’acqua è intenta a scavare nel fondale nuovi cunicoli. All’acqua del lago mai si potrà attribuire forma precisa.

Ziglia, in Rivelazioni d’acqua , non si limita a incrociare lo sguardo della verticalità con quello steso lungo l’orizzonte, ma intuisce che non si deve trascurare la diagonale della vela , lo sguardo obliquo, libero, per leggere il mondo. E forse i gabbiani in picchiata, la vela che sbatte sull’acqua, il lavorio che compie l’acqua in profondità, il secchiello che si inabissa… sono cose che solo in apparenza non hanno relazione.

In chiusura si volgono le spalle al lago, si imbocca la strada di casa, si torna in quel giardino dove tutto ha avuto inizio. Questo libro acchiappa-immagini, o forse sarebbe meglio dire acchiappa-immaginario, regala a chi legge l’illusione di riuscire a cogliere il senso della vita, di portare in superficie ciò che si trova in profondità.

La stagione è finita e dovremo aspettare la nuova, in un tempo ciclico. Ma, ci dice in “Explicit” la Ziglia, Si impara davvero a lasciare/ e aspettare?

Il lettore ripone il libro ma, lo sa bene, presto tornerà di nuovo a caccia di rivelazioni.

Adriana Tasin

 
 
 
 
Una nube di valle solca tutto
il fondo, ondeggia sui colli e giù
in scivolata sull’acqua.
 
Ma da lì, respirano?
Guardano l’orologio?
 
La sentono sul capo
la grande mano bianca,
la lingua lenta
di gatta sgravata,
o si lasciano sbigottire
dalle strade inghiottite,
dalla direzione che si sottrae?
 
 
 
 
 
 
Dove il prato espone la groppa
ai primi raggi sale
in controluce
il respiro della terra
che si fonde
al fiato quieto del cavallo.
 
Paiono docili vita e morte
insieme, terribili.
 
 
 
 
 
 
Si scivola così nell’illusione
con i pugni stretti alle folate
che si slegano, riaperti all’aculeo
della pioggia presa al volo
e le dita dei piedi troppo corte
per tenersi aggrappati a terra.
 
 
 
 
 
 
Chi legge il mondo su assi cartesiani
trascura la diagonale della vela
smarrita nel fileggio,
che sbatte e si ritorce
inarca e si distende
libera
 
e tutta esposta al vento.
 
 
 
 
 
 
Ogni volta l’estate innerva radici
nelle tinte d’autunno,
trascina l’illusione
come chi non vuole morire.
 
Si impara davvero a lasciare
e aspettare?