Ridotti al batticuore adulto del comprendere – Patrizia Cavalli


 
 
Tempo di pace questo nostro disgraziatissimo
che non consente al cuore la barbarie
né guerre né battaglie, ma lagrime sbagliate
che ingombrano il mattino. Noi qui ridotti
al batticuore adulto del comprendere, senza
vera speranza di venire uccisi. Colpevoli
persino della nostra morte, che sia il corpo
a volerlo o sia il pensiero, lento o violento
è suicidio sempre. E in solitudine
non c’è morte innocente.
 
 
 
 
Per distrarsi dal tempo bisogna avere molte occupazioni,
obblighi, scadenze, conti da pagare e rimandare
rimandare l’attuazione, finché tutto finisce
e tutto scade naturalmente inevitabilmente.
Restano fogli di carta spiegazzati, guardati
mille volte e poi buttati. Sembra uno scherzo
ma passano gli anni e accompagnati da questa sensazione
di avere qualcosa da fare, molto importante,
molto urgente, si resta sempre
in un eterno l’altro ieri.
 
 
 
 
Così trasporti gli anni
tra falsi amori
perché nulla cambi,
riducendo in pigrizia
ogni terrore: nel punto fermo
senza distorsioni, tra due inaccessibili
passioni, che nulla si avvicini
veramente, che nulla se ne vada.
 
 
 
 
Poco di me ricordo
io che a me sempre ho pensato.
Mi scompaio come l’oggetto
troppo a lungo guardato.
Ritornerò a dire
la mia luminosa scomparsa.
 
 
(Patrizia Cavalli, Poesie (1974-1992), Einaudi, 1992)
 
 
 
 

Già in questi pochi testi, selezionati dai primi due lavori di Patrizia Cavalli, Le mie poesie non cambieranno il mondo (Einaudi, 1974) e Il cielo (Einaudi, 1981), emerge nitidamente il senso di lucido disincanto e lo sguardo razionale, ironico e amaro capace di restituire, con pochi versi attenti e ponderati, molto del sentire dei nostri giorni, non senza una critica spietata alla società e a sé stessi; il tutto con un linguaggio quotidiano, colloquiale, che non risulta però banale o dimesso, ma è anzi recuperato nella sua valenza semantica, scarnificato all’essenziale per riscattarne la pregnanza, attraverso un metro attento ma non invadente, che si nutre di assonanze, rime interne, conservando dunque una struttura sonora meticolosa che si presta al risultato finale di un lavoro naturale, efficace, espressivo, scevro da ogni sorta di artificio o artigianato.

La sapienza ritmica è già evidente dal primo dei testi selezionati, dove il “tempo di pace … disgraziatissimo … non consente al cuore la barbarie / né guerre né battaglie, ma lagrime sbagliate”: l’opposizione alla ragione del sangue e dell’istinto rappresentano una critica alla lucida consapevolezza dell’esserci (pur non esente da un sentire penoso: siamo infatti “ridotti / al batticuore adulto del comprendere”), privo di una reale percezione del mistero, di una intuizione di un sentire ignoto o inaccessibile; una non vita, in una certa misura, che riduce in uno stato di solitudine della mente, “senza vera speranza di venire uccisi”, morte priva di innocenza perché desiderata, “che sia il corpo / a volerlo o sia il pensiero, lento o violento / è suicidio sempre”. Già questi pochi versi tratteggiano la necessità di ricollegare l’uomo alla vitalità spontanea dell’esistenza, mistificata nel solipsismo della ragione isolata in sé stessa, e infelice di ogni cosa.

Ed ecco che il tempo diventa qualcosa da cui bisogna distrarsi, per non avvertirne il peso doloroso su una coscienza lucida, che necessita di attività per non pensare: “obblighi, scadenze, conti da pagare e rimandare … finché tutto finisce … inevitabilmente”; una congettura di adempimenti e programmi volta ad attuare il passare degli anni, fino a persuadersi sia vera “questa sensazione / di avere qualcosa da fare, molto importante, / molto urgente”. Una non vita, di nuovo, che costringe in un “eterno l’altro ieri”, verosimilmente il giorno della scadenza da recuperare, dell’adempimento da completare, che distrae nuovamente dal problema reale: lo scollamento dell’uomo dalla spontaneità del vivere e dell’esserci, il suo essere incatenato a una lucidità feroce da cui, infine, bisogna distrarsi per non cadere preda della sua letalità.

Questa programmazione, che riduce “in pigrizia / ogni terrore”, si estende anche agli affetti, “tra falsi amori / perché nulla cambi”, un modo, nuovamente, per trasportare gli anni, proprio come un fardello: il “punto fermo”, l’equilibrio di questo esistere, luogo di protezione massima del sé dal mondo e dagli altri (e infine da sé stesso), è quello tra “due inaccessibili / passioni, che nulla si avvicini / veramente, che nulla se ne vada”; leggendo questa frase come un’affermazione si potrebbe sostenere che in questo limbo della ragione è proprio il nulla ciò che davvero si avvicina all’uomo, incatenato alla pigrizia di un ragionare arreso a tali meccanismi di autodifesa, alla distanza massima dalla spontaneità animale del corpo e del sangue.

E di questo pensare non resta nemmeno la lucidità della memoria: “poco di me ricordo / io che a me sempre ho pensato. / Mi scompaio come l’oggetto / troppo a lungo guardato”. Paradossalmente in questa immagine finale la scomparsa del sé, su cui l’attenzione dell’io del testo si è concentrata (vuoi per la percezione del pensiero, del tempo, della fine, delle relazioni, dell’altro), intrecciata con quella della memoria, si fa parola “luminosa”, indizio di splendore del dire: e nel restituirci con tale lucida precisione i meccanismi della mente umana, raccolta in una così spietata attenzione verso la fragilità del tempo e delle relazioni, per opposizione, nel non detto, possiamo leggere un invito a recuperare una dimensione altra dell’esistere, che dalla “luminosa scomparsa” si faccia testimonianza e diretto esperire del mondo, in un io che non è solo un “oggetto / troppo a lungo guardato”, ridotto alla solitudine di falsi amori e desiderio latente della morte, ma possibile vitalità piena del corpo e del sentire, di cui la ragione può essere eventuale testimone, e non più carnefice.

Mario Famularo