Riconoscere la vera fine di questo mondo così bello – Roberto Ariagno

Riconoscere la vera fine di questo mondo così bello - Roberto Ariagno

 
 
 
 
se dichiararla una irrilevanza
di noi da ogni parte (e le urla, le mani
che negano il possibile
quel mausoleo degli inizi, com’è apparso
improvviso e non lascia vedere oltre
 
             poi restano la casa senza di te
e questa parte del paese dove corre una impazienza
l’enormità del vuoto quando ci si avvicina,
il mancamento del discorso, il salto tra la parola e l’altro
 
 
 
 
 
 
la verità entra col freddo, è terra aspra
riparo nella discesa, fugge (l’odore
di un’altra vigilia, di ferro lontano
vigne, cucine spalancate
             fugge l’esatto
la pioggia sul sabato, l’impazienza del giorno prima
quando era chiaro e non potevi non sapere,
qui restano mura lucide, un filare muto
la luce netta davanti alle cose
 
            ma parlerà
comunque, vento o respiro
dalla calma dell’assedio
nella cornice vuota dei risvegli
 
 
 
 
 
 
la perfezione è questa solitudine
dopo la finzione dei solstizi
quando ci viene incontro un silenzio
e la sera dispone di ebbrezza e residui
del nubifragio, è la riconoscenza del male
sceso in qualche giorno passato senza
averne l’aria, mentre chiudevamo gli approdi
e tu non ne sapevi nulla di quel resto
dove si ripara il senso, tra i vuoti del nome
e la terra di chi non è nessuno, così continua
la linea di fuga verso la presunzione di sé
 
o forse è il balcone in quell’aria d’acciaio
il sorriso giaguaro, il fiore in bilico sull’orlo
 
              (se di fronte alla caverna del sapiente
ci fossimo stati, nella lucidità di quella sera
a riconoscere la vera fine di questo mondo così bello
 
(Roberto Ariagno, Il tempo di una muta, Kurumuny, 2020)
 
 
 
 

La parola di Roberto Ariagno è esercizio di solida testimonianza delle criticità dell’esistere, dell’essere in relazione con l’altro e con il mondo, vissuta nella profondità della propria percezione introspettiva, in una sorte di rielaborazione dell’altro da sé attraverso una silenziosa e accogliente rimodulazione dell’esperienza e dei suoi aspetti più contraddittori e sofferti.

Il primo dei testi selezionati evidenzia “una irrilevanza / di noi da ogni parte”, una completa insignificanza degli agenti esistenziali, la cui dichiarazione è ancora meno rilevante – e, subito in conflitto con una constatazione così lucida, con una parentesi che quasi sembra voler separare la mente dalla carne, vi sono “le urla, le mani / che negano il possibile” e l’impossibilità di “vedere oltre” i fenomeni.

Questa “irrilevanza” viene ulteriormente contraddetta dal circoscrivere il particolare dall’universale, quando resta “la casa senza di te”, “questa parte del paese dove corre una impazienza” e l’improvvisa “enormità del vuoto quando ci si avvicina”, in una percezione assai sentita del bisogno di prospettiva umana prima che esistenziale, con il richiamo a referenti molto specifici della vita personale di ciascuno (“senza di te”, il “paese”).

Tali consapevolezze maturano attraverso esperienze aspre, sofferte (“la verità entra col freddo, è terra aspra”), dove una percezione di solitudine, nostalgia e contemplazione (“l’odore / di un’altra vigilia, di ferro lontano / vigne, cucine spalancate”) pervadono il dettato di una riflessione perfezionatasi attraverso il silenzio, l’isolamento e il tentativo di risolvere un’intensa irrequietezza interiore (“fugge l’esatto … l’impazienza … non potevi non sapere”); ciò che appare indiscutibile è l’evidenza materica del mondo (“qui restano mura lucide”), la sua indifferente maestà dichiarativa (“la luce netta davanti alle cose”), che, in ogni caso, per quanto appaia ostile o indifferente, “parlerà / comunque, vento o respiro / dalla calma dell’assedio” (si noti il termine di derivazione militare) fino alla “cornice vuota dei risvegli” – dove il vuoto appare come acquisizione di una coscienza di insignificanza dell’uomo, e del singolo in particolare, di fronte al mondo e allo scorrere del tempo, mentre il “risveglio” suggerisce un’evoluzione positiva, per quanto dolorosa, frutto di una resa necessaria.

“la perfezione è questa solitudine”, sembra confermare il terzo testo, “quando ci viene incontro un silenzio / e la sera dispone di ebbrezza e residui / del nubifragio”: in questi versi si racchiude molto dell’attitudine di Ariagno, contemplativa, appassionata, ma al contempo lucida e disincantata, consapevole allo stesso tempo del trascorso dissesto e della ricchezza del sentire, che si schiantano di fronte al silenzio del tempo e dei fenomeni, e si rielaborano “perfettamente” nella solitudine che segue.

Nel tentativo di riparare “il senso, tra i vuoti del nome” (si ribadisce l’insufficienza della parola e della nominazione), “in quell’aria d’acciaio” che si ricollega alla percezione opprimente della società urbanizzata di Pagliarani, resta posto per un “fiore in bilico sul’orlo”, attraverso la “lucidità di quella sera”, e una considerazione finale, che, nonostante l’apparente amarezza, ha il sapore di un risveglio della coscienza, quando ammette la possibilità di “riconoscere la vera fine di questo mondo così bello”, sia per l’appassionata dichiarazione di bellezza verso ciò che ci circonda, sia per la necessità di dover accettare la natura provvisoria di tale possibilità di valore, la cui vera fine è costante oggetto di testimonianza, e la cui sofferta nostalgia non fa che acuire la percezione di uno slancio ostinato e viscerale verso una possibilità di trattenerlo, di preservarlo, di non perderlo – per non perdere definitivamente noi stessi.

 

Mario Famularo